La professione degli insegnanti. Un’autonomia da ricostruire
di Benedetto Vertecchi
da Accademia edu
Vorrei, per il tempo necessario a scrivere queste riflessioni, prescindere dalle condizioni in cui versa il nostro sistema scolastico. Se non lo facessi, non riuscirei più a sviluppare un pensiero che abbia un senso, che guardi ai tempi lunghi in cui ciò che oggi ci circonda sarà stato relegato in aree più o meno remote della memoria. L’educazione sarà, e non occorre essere profeti per dirlo, qualcosa di molto diverso da ciò che per esperienza siamo abituati a considerare. Basti tener conto della rapidità dei cambiamenti intervenuti nel corso del Novecento per rendersi conto che tutti gli aspetti che concorrono a determinare il modo in cui si sviluppa la proposta educativa hanno assunto caratteri che in precedenza sarebbe stato difficile immaginare. Ciò vale per i soggetti coinvolti nell’attività educativa (dentro e fuori la scuola), per il rapporto che si è venuto stabilendo fra la scuola e la società, per i valori e la cultura che costituiscono, per così dire, la materia prima dell’educazione formale. Se ci soffermassimo a considerare fenomenologie riconducibili a esperienze limitate (come sono quelle che si possono compiere all’interno di un determinato paese), finiremmo col perdere di vista l’educazione come funzione essenziale nel percorso evolutivo della specie umana. Certo, non è facile prescindere da aspetti contingenti. Per lo meno, non è facile farlo quando di continuo si è sollecitati a prendere atto di decisioni sulle quali il giudizio più garbato che si possa esprimere è che sono irragionevoli. Le modifiche che senza tregua intervengono nell’organizzazione e nelle pratiche educative solo accidentalmente sono in relazione le une con le altre. Si riconoscono come valide soluzioni che basterebbe un po’ di buon senso per capire che non dureranno molto più dell’espace d’un matin. È proprio ciò che non dovrebbe accadere, anche nell’ipotesi, veramente azzardata, che siano assunte decisioni delle quali si sia in grado di spiegare le ragioni. Il cambiamento è presentato come una necessità, senza che in buona parte dei casi si sappia spiegare perché certi comportamenti non siano più considerati adeguati, o perché si debba ritenere che altri lo siano: nell’uno come nell’altro caso, sarebbe necessario sviluppare un’argomentazione. Ma si direbbe che argomentare sia ormai l’ultima delle preoccupazioni di chi reca la responsabilità di orientare il funzionamento del sistema educativo, con la conseguenza di rendere sempre meno sensibili alle conseguenze degli interventi irragionevoli sul sistema proprio chi subirà le conseguenze negative delle decisioni assunte. Nel confronto educativo si è affermato una sorta di mitridatismo: non si sa come giustificare una decisione? Basta dire “Ce lo chiede l’Europa”. Si vuol tagliare di un anno la durata degli studi secondari? “È per adeguarci a ciò che avviene in altri paesi”. Bambini e ragazzi non sanno più tenere una penna in mano? “Bisogna far posto alle risorse offerte dagli sviluppi della tecnologia”. E via seguitando. Che poi le risposte fornite siano al più un sentito dire senza fondamento non pare sia importante. Chiunque abbia una pur sommaria conoscenza dei sistemi educativi in Europa sa bene che il loro funzionamento risponde a differenze anche radicali nelle politiche scolastiche. Perché dovremmo pensare che l’Europa ci riservi richieste che si guarda bene dal presentare ad altri paesi? Chi sostiene che il percorso primario-secondario è generalmente di dodici anni, mentre da noi è di tredici, e che anche in Italia si dovrebbe tendere a una diminuzione del numero di anni dedicati all’istruzione sequenziale, ignora che la tendenza in altri paesi d’Europa va spesso nella direzione contraria. Non solo in molti paesi l’istruzione primaria ha inizio a sette anni (quindi, aggiungendo dodici anni di scuola primaria e secondaria si arriva a diciannove), ma è in atto una generale revisione in senso formale delle istituzioni per l’infanzia. I bambini a sette anni hanno già fruito di vari anni di educazione scolastica, sempre meno orientata, anche nei primissimi anni di vita dei bambini, nel senso della custodia e sempre più in quello dell’istruzione. Perché dovremmo prendere per buone tutte le proposte dei produttori e dei venditori di dotazioni tecnologiche, senza preoccuparci di verificare sul campo (ciò che, quando stato fatto, ha fornito indicazioni tutt’altro che esaltanti) gli effetti sullo sviluppo psicofisico degli allievi a breve e a medio termine, nonché a lungo termine quelli sulla popolazione adulta? Potrei continuare a considerare una casistica che mi porterebbe a smentire il proposito dal quale ero partito in apertura di questo intervento, quello di sviluppare considerazioni rivolte ai tempi lunghi. E, invece, è proprio ciò che occorre: bisogna uscire dalla penombra in cui vagano i protagonisti dell’educazione. Incominciamo col prendere atto che l’educazione formale indirizza oggi la sua proposta a strati di popolazione che richiedono una continua ridefinizione sul piano sincronico e su quello diacronico. Da un punto di vista sincronico va notato che nel volgere di un tempo relativamente breve (limitiamoci a considerare l’ultimo secolo) la fruizione dell’educazione scolastica è diventata una dimensione normale nello sviluppo di bambini e ragazzi e che col volgere dei decenni è venuto accrescendosi il numero di anni riservato all’istruzione sequenziale. Se aggiungiamo all’educazione formale di cui si fruisce nei primi due decenni di vita le opportunità di cui possono fruire gli adulti, si arriva a concludere che l’educazione interessa ormai tutte le fasce d’età e tutti gli strati sociali. Non solo: nel tempo che stiamo considerando, la speranza di vita si è venuta dilatando, e oggi si aggira sugli ottantacinque anni. In pratica, ciò comporta che i bambini e i ragazzi possono sperare su una durata della vita che supera di una trentina d’anni quella delle tre generazioni precedenti. Se accettiamo di considerare l’educazione come una funzione essenziale per l’adattamento alla vita, dobbiamo concludere che nei due primi decenni, quelli in cui per lo più si colloca l’educazione sequenziale, devono essere poste e premesse per condizioni di esistenza che si evolveranno molto più a lungo (oltre che più celermente) di quelle che oggi si presentano. All’incremento della durata della speranza di vita ha corrisposto nell’ultimo secolo una rapidissima crescita e trasformazione dei repertori conoscitivi. Ciò ha comportato non solo che nove conoscenze si sono aggiunte a quelle che già erano disponibili, ma che le conoscenze già disponibili hanno subito processi che ne hanno profondamente modificata la rilevanza e la collocazione nel quadro della cultura. Oggi sarebbe impensabile pretendere che il repertorio conoscitivo di un bambino o di un ragazzo riproduca quello dei genitori. Sappiamo in che modo ha inizio l’educazione sequenziale, ma non abbiamo idea di quale sarà lo scenario in uscita. Da quest’ultima osservazione derivano conseguenze per tutti gli altri protagonisti dell’educazione, primi fra tutti gli insegnanti, ma quasi nella stessa misura i genitori. Se non sappiamo che cosa attenda gli allievi al termine del percorso sequenziale, tanto meno possiamo sapere quale sarà l’evoluzione successiva delle condizioni di vita, quali nuovi apporti la ricerca recherà alla conoscenza, quali capacità saranno più apprezzate. Malgrado l’enfasi che viene posta per affermare la rilevanza ai fini educativi di attività che agli allievi è richiesto di svolgere per qualche centinaio di ore all’interno del sistema produttivo, dobbiamo ammettere che non sappiamo quanto a lungo i modelli organizzativi e operativi cui quelle attività fanno riferimento conserveranno la loro validità. Studi recenti (ricordo in particolare il bel saggio di Tyler Cowen, Average is over. Powering America Beyond the Age of the Great Stagnation. Dutton Adult, 2013) hanno posto in evidenza la rapidità con la quale perdono la loro capacità di attrazione professioni che fino a pochi prima sembravano solidamente attestate nel quadro sociale: si tratta, soprattutto, di professioni alle quali corrisponde un livello medio d’istruzione. Chiunque può stilare un elenco delle professioni dismesse o in procinto di esserlo. Ma a noi interessa un aspetto specifico di questo problema, per le implicazioni che presenta da un punto di vista educativo: quale parte dell’educazione sequenziale era prioritariamente rivolta a far acquisire conoscenze e abilità associabili alle professioni che poi hanno conosciuto una più rapida perdita di apprezzamento sociale? La domanda richiede non una, ma molte diverse risposte, che si riferiscono ai molti piani in cui si esprime la realtà educativa. Provo a elencare quelli che mi sembra richiedano una immediata e più riflessiva attenzione, senza, con questo, voler trascurare tanti altri aspetti che pure, in varia misura, concorrono a qualificare le scelte e le pratiche dell’educazione:
1. l’identità primaria dell’educazione sequenziale coincide con l’acquisizione del repertorio di competenze simboliche che si collega all’acquisizione delle capacità di lettura e scrittura. L’apprezzamento sociale di tali capacità sembra risentire della possibilità di sostituire la capacità dei soggetti di produrre e usare i simboli con la loro acquisizione tramite risorse strumentali;
2. l’interiorizzazione dei simboli tramite le esperienze di produzione e d’uso si collega alla loro stabilizzazione nella memoria e al moltiplicarsi degli impieghi creativi;
3. in linea di massima, risultano più stabili gli apprendimenti che non sono collegati a nozioni contingenti di utilità, come – sono solo esempi, che possono assumere in contesti diversi denominazioni e aggregazioni diverse - quelli linguistici, matematici, naturalistici, artistico-musicali, storici;
4. nell’educazione sequenziale è opportuno distinguere tra la proposta di apprendimenti il cui intento è segnare il profilo culturale a lungo termine (sono, in linea di massima, quelli cui mi riferivo al punto precedente) e gli apprendimenti sui quali si riversa un’attenzione effimera, generalmente enfatizzata da soggetti interessati a trarre benefici a breve termine dalle capacità acquisite dagli allievi;
5. la varietà delle esperienze cognitive, affettive e di relazione che si sviluppano nella fase sequenziale dell’educazione formale costituisce una premessa per un successivo, positivo adattamento alla vita sociale;
6. per quanto riguarda i contenuti della proposta di apprendimento, le tendenze modernizzatrici hanno teso a individuare ciò che facilità l’adattamento nel breve periodo a condizioni imposte dall’esterno. La tendenza contraria, orientata al lungo periodo, persegue l’intento contrario: non è utile ciò che appare tale in un momento determinato, ma ciò che può sostenere l’adattamento ai cambiamenti che segnano il trascorrere del tempo sul piano personale e su quello sociale;
7. il perseguimento di un’utilità a breve termine contrappone gli interessi educativi espressi da organizzazioni mosse da intenti non educativi, o solo marginalmente educativi, allo sviluppo di disegni di crescita individuale e sociale;
8. l’incidenza nel confronto educativo di criteri conformi a ciò che si suole indicare come globalizzazione, e che dal punto di vista culturale comporta la contrazione dei repertori simbolici, riduce la rilevanza delle culture identitarie, che si esprimono attraverso le lettere e le arti, costituendo quello che Harold Bloom ha definito canone occidentale (The Western Canon, Harcourt Brace, 1994).
L’insieme degli aspetti sui quali ci siamo soffermati ricade negativamente sulla qualità del lavoro degli insegnanti. La parte apprezzata del loro profilo è solo quella che si esprime tramite adempimenti, mentre è trascurata (non voglio dire che sia considerata fastidiosa) la loro competenza culturale. Eppure, sarebbe proprio tale competenza culturale la condizione per acquistare l’autonomia necessaria a operare scelte dalle quali possano discendere disegni educativi orientati al lungo periodo. Se si riflette sui cambiamenti che si sono succeduti dalla fine del Novecento a oggi e che hanno cambiato sostanzialmente (nei modi più arruffati e poveri di prospettive) il profilo professionale degli insegnanti, risulta evidente che esso è sempre più modesto dal punto di vista culturale e sempre più grondante di ideologia e sapienzialismo indimostrato. Lasciare che continui a manifestarsi questa linea nei cambiamenti equivale ad accettare l’egemonia di organizzazioni sociali esterne all’educazione: occorre operare un’inversione di tendenza, rilanciando una progettualità educativa alla quale l’autonomia degli insegnanti possa contribuire in modo determinante.