Iscriviti alla FLC CGIL

Home » Rassegna stampa » Rassegna stampa nazionale » La scuola dei BES. tra diritti speciali e diritti sociali

La scuola dei BES. tra diritti speciali e diritti sociali

il proliferare, secondo un criterio cumulativo, di diritti speciali come un effetto perverso del restringersi dei diritti sociali,

28/03/2014
Decrease text size Increase text size
ScuolaOggi

Simonetta Fasoli

I più recenti interventi normativi che, introducendo l'acronimo BES (Bisogni Educativi Speciali) riguardano le politiche dell'integrazione scolastica e la tutela del diritto allo studio di fasce di scolarità specifiche, sono la Direttiva ministeriale del 27/12/2012 e la successiva C.M. n. 8 del 6/3/2013, concernente le indicazioni operative. Questi provvedimenti, nelle intenzioni degli estensori, riordinano e sistematizzano la materia, in una linea evolutiva che va dalla L.104/92 (riservata ai soggetti in situazione di handicap, o, come oggi si preferisce dire, diversamente abili) alla L. 8 ottobre 2010, n. 170, seguita dal D.M. 12/7/2011 con le allegate Linee guida che hanno disciplinato organicamente la materia dei DSA (Disturbi Specifici di Apprendimento). Con l'intervento normativo ultimo in ordine di tempo, nell'area dei BES sono ricompresi tre grandi settori: le disabilità; i disturbi evolutivi specifici, tra cui si annoverano i DSA; lo svantaggio socioeconomico, linguistico, culturale.

.
La Direttiva del 2012, già nel titolo, richiama l'inclusione scolastica: da questo punto di vista
perciò si vuole partire, in questo contributo, per un'attenta considerazione delle questioni che sono in campo, mettendone in luce gli aspetti di criticità.Il concetto di inclusione, nella sua genesi, ha capovolto l'impostazione tradizionale del sistema scolastico inteso come un apparato rigido, costituito da condizioni date, organizzato anche in vista di una selezione sociale: in quel sistema gli adatti erano i destinatari di un servizio standardizzato,
negli assetti e nei contenuti, e organizzato secondo una precisa gerarchia tra gradi e ordini di scuola; per i quasi adatti e i non adatti erano previste forme di una scolarità separata e al massimo genericamente riparativa (pensiamo in particolare alle classi speciali e differenziali degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso).
Nell'ottica dell'inclusione, invece, le capacità adattive non sono assunte come una qualità dei singoli soggetti, ma come caratteristiche intenzionalmente costruite nei contesti. Il contesto, nella sua accezione più ampia, può essere la struttura che accoglie o respinge, che valorizza o seleziona, che emancipa o conferma le differenze socioculturali. La didattica stessa non è più da considerare un elemento falsamente neutrale, un formulario di dispositivi precostituiti, ma un fattore decisivo per l'inclusione.
Se volessimo indicare un precedente significativo nel percorso culturale che ha messo capo alle più avvertite politiche scolastiche dell'integrazione, dovremmo riferirci alla L. 517/77, . Con la 517, non a caso pensata per l'intera fascia dell'obbligo, si archiviano le classi speciali e differenziali, si fissano i criteri e le modalità dell'integrazione scolastica, si assume la programmazione educativa come strumento essenziale di organizzazione didattica. Non ultimo, si articolano le attività e la gestione del gruppo classe secondo il principio dell'individualizzazione, che può diventare la chiave di volta per rendere effettivo il diritto allo studio.

  1. Vale la pena soffermarsi brevemente su questa dimensione. Cosa vuol dire, in buona sostanza, individualizzare? Vuol dire partire da obiettivi comuni (in termini più attuali, parleremmo di saperi essenziali e irrinunciabili...) per diversificare i percorsi, gli approcci, modulando in conseguenza l'uso delle risorse. Come si vede, questo criterio tiene insieme la scuola di tutti e di ciascuno; salvaguarda l'unitarietà del sistema e l'equità dei suoi esiti; valorizza la funzione dell'insegnante (chiamato alla mediazione didattica fuori da una funzione puramente trasmissiva di contenuti) e le potenzialità degli alunni.

A partire dalla L.53/03 (Moratti) e dalle sue disposizioni applicative (D. Leg.vo 59/04) è invalsa
l'idea di personalizzazione, che ha messo capo, in quelle norme, ai cosiddetti Piani di studio
personalizzati. Un cambiamento di rotta tutt'altro che irrilevante... Anche in questo caso, usando l'estrema sintesi, potremmo dire che la personalizzazione consiste nel diversificare gli obiettivi, calibrandoli sulle caratteristiche dei singoli. Individualizzare e personalizzare, dunque, non sono propriamente termini sinonimi né contigui, ma al contrario sottendono idee diverse di scuola e di insegnamento-apprendimento. Nella dimensione della personalizzazione l'unitarietà del sistema è tendenzialmente compromessa, l'equità degli esiti spesso solo apparente, dal momento che la “selezione” avviene all'origine del percorso, attraverso la graduazione degli obiettivi. L'essenziale cede al concetto di “minimo”. La scuola, come da più parti è stato osservato, tende a diventare un “servizio a domanda individuale”: un contenitore di soggetti frammentati, in cui le differenze iniziali, siano esse di natura individuale o socioculturale, sono assunte come un dato e possono trasformarsi in “destini” (qualche pedagogista di quell'area li definirebbe “talenti”, con un'evidente torsione di significato).
I decreti Moratti, quanto ai Piani personalizzati, sono stati superati dalle Indicazioni per il curricolo,mentre l'idea stessa di personalizzazione sembra essere ormai acquisita, in qualche modo assimilata dalla cultura diffusa della scuola. La ritroviamo, infatti, esplicitamente ribadita anche nelle norme che riguardano i DSA e nella citata Direttiva sui BES. In alcuni passaggi delle norme richiamate (soprattutto nelle Linee guida che accompagnano i DSA) si fanno passare i due termini, individualizzazione e personalizzazione, come coesistenti e compatibili, da comporre negli approcci metodologici. Considerando l'ampia platea di soggetti cui si riferiscono i BES, e alla luce delle osservazioni appena svolte, questo fatto assume un senso che va ben al di là di una semplice questione terminologica. Mi sembra sia il caso di attivare la vigilanza e consapevolezza degli insegnanti e in generale degli operatori coinvolti, sollecitandoli a non considerare neutrale la scelta dei termini, laddove si parla di “Piani didattici personalizzati” come generalizzato strumento di programmazione per i deficit comunque intesi. Addentrandoci nel terreno dei BES, altri e non meno rilevanti nodi cruciali sembrano emergere.Alcuni aspetti richiamano proprio una questione di fondo. Preoccupa, infatti, questo approccio alla tematica della diversità, che, pur nella distinzione, mette in uno stesso contenitore situazioni e soggetti che la diversità la incarnano secondo condizioni, fenomeni, espressioni eterogenei, anche dal punto di vista della genesi. Un approccio che tende ad omologare le modalità di risposta anche sul piano organizzativo, come poi meglio vedremo. Più ancora, ci si domanda quale reale efficacia possa avere un'impostazione, che sotto il comune denominatore dei BES, classifica, cataloga, riducendo in questo modo storie di vita e forme di condizionamento socio-culturale a categorie e casistiche. Mentre diagnosi rigorose e percorsi riabilitativi costruiti con il concorso di diverse professionalità competenti, nel caso di disabilità riconosciute e deficit acclarati, rendono praticabile la prestazione specifica, per un effettivo ed esigibile il diritto allo studio e all'apprendimento, negli altri ambiti di diversità che la direttiva individua e disciplina, intravediamo invece il rischio di trasformare le tante fragilità e perfino le iniquità di un sistema, i suoi punti di rottura, in patologie individuali.
Le generazioni che si affacciano al mondo della vita, per le caratteristiche di complessità e le crisi anche di natura strutturale che le accompagnano, pongono agli insegnanti e al sistema
dell'istruzione-formazione nel suo insieme sfide che è impossibile non raccogliere, ma al tempo stesso mostrano che un sistema autoreferenziale non è in grado di dare risposte adeguate. Tuttavia, è indubbio che una risposta in termini “educativi” e non “clinici” vada cercata e che la scuola, insieme alle altre agenzie che “fanno educazione”, debba cercarla. Non si vorrebbe che le tante disfunzioni del sistema scolastico, le sue carenze strutturali, l'impoverimento sistematico delle risorse cui stiamo assistendo da troppi anni, inducano la scuola a “patologizzare” le diverse condizioni, nelle tante variabili con cui si presentano, producendo effetti perversi sui più deboli e trovando sponda anche negli insegnanti e negli operatori che, comprensibilmente, cercano soluzioni cui far fronte nell'emergenza.
Ad avvalorare le preoccupazioni appena espresse, si sottolinea un passaggio significativo della
Direttiva ministeriale del 27/12/2012, al capoverso che riguarda la formazione, laddove si fa
esplicito riferimento ad “una didattica inclusiva più che una didattica speciale” . In questa scarna formula ci sono almeno due elementi che vale la pena enucleare. Il primo attiene proprio alla formazione: una politica della formazione coerente con gli obiettivi sottesi ad una reale integrazione scolastica deve rafforzare negli insegnanti e in generale negli operatori competenze trasversali, tali da metterli in condizione di individuare, trattare, gestire le diversità, comunque intese, con gli strumenti ordinari della pedagogia e della didattica. Il secondo elemento, del resto strettamente connesso al primo, passa per una politica strategica delle risorse materiali e strutturali che cambi finalmente passo e direzione. Per diversificare i percorsi, e non gli obiettivi essenziali, nella prospettiva dell'inclusione e dell'individualizzazione che si è cercato di chiarire, servono risorse: di tempo, di spazio, di coprogettualità con altri soggetti, nell'ottica della pianificazione territoriale.
Un'ultima nota di criticità, per completare, sia pure provvisoriamente, questa ricognizione. Nella struttura organizzativa che le norme prevedono, dal livello centrale a quello territoriale fino alle scuole e alle reti di scuole, si danno indicazioni molto articolate, che disegnano una trama di soggetti (i cosiddetti Centri Territoriali di Supporto, Centri Territoriali per l'Inclusione) e Gruppi di Lavoro per l'Inclusione, da attivare negli Uffici scolastici periferici e nelle istituzioni scolastiche.
Un sistema complesso, forse pletorico, che moltiplica gli enti e tende a parcellizzare le risorse Nelle singole scuole, qual è il “precipitato” di questa macchina organizzativa e burocratica?
L'individuazione delle risorse di organico necessarie per gestire i Piani didattici personalizzati, che è parte integrante del Piano annuale per l'inclusività. Con quest'ultimo, siamo di fronte ad un documento che viene pensato, a quanto sembra, distinto dal POF, al quale di fatto si affianca per giustapposizione, rischiando di essere percepito, anziché come uno strumento efficace di programmazione, come un'inutile “molestia burocratica”. Il Piano annuale, in buona sostanza, comprende tutti i soggetti individuati nell'area dei BES, ai fini dell'attribuzione e dell'utilizzo delle risorse. Non è difficile prevedere che la coperta diventerà così ancora più corta e che i diritti acquisiti (misure di sostegno per l'integrazione scolastica dei diversamente abili) si confronteranno, nella classica “guerra fra poveri”, con i diritti dei nuovi soggetti rientranti nell'area dei BES. Questa modalità, nei testi normativi, si definisce “funzionalità” dell'organico, per cui si fa riferimento a un non meglio identificato criterio “qualitativo” e non “quantitativo” di determinazione degli organici. La fonte di ispirazione è l'art. 50, Legge 35/2012, per la parte che riguarda “l'attuazione dell'autonomia”: non è azzardato sostenere che ci troviamo di fronte ai presupposti per agire seguendo una mera logica di tagli lineari.
La questione dei BES, in definitiva, è da tenere sotto stretta osservazione, non solo in quanto tale, ma anche perché sembra essere emblematica di un processo degenerativo: il proliferare, secondo un criterio cumulativo, di diritti speciali come un effetto perverso del restringersi dei diritti sociali, tra i quali il diritto allo studio, all'apprendimento per tutto l'arco della vita, ha una funzione così essenziale da essere sancita costituzionalmente.