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La scuola senza allievi dove il tempo si è fermato

Quelle aule sono una fabbrica di futuro e quella fabbrica sembra essere stata dismessa in una notte

10/06/2020
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la Repubblica

Michele Smargiassi

Cento giorni e già sembrano cento anni. Quando Maurizio Gjivovich, fotografo, si è fatto aprire le porte delle scuole elementari di Torino, chiuse dal 21 febbraio, deve aver provato la sensazione di chi visita un museo. Come quello di palazzo Barolo (sempre a Torino) dove è stata ricostruita l’ottocentesca aula immaginaria del libro Cuore di Edmondo De Amicis (ambientato sempre a Torino). Le sue fotografie questo ci raccontano: di spazi disabitati che conservano solo l’eco della vita che doveva, in tempi ormai lontani, averli animati. Spazi pieni (anche stracolmi, diciamo) di oggetti, banchi, astucci, cassetti, quaderni, disegni, zainetti, attaccapanni, malinconicamente insufficienti a rievocare la funzione a cui servirono. Ma vuoti di corpi umani, eccetto l’aleggiare un po’ spaesato dei loro angeli custodi mascherinati, le maestre. Può fare questo, un distacco di tre mesi soltanto? Proiettare bruscamente all’indietro, mutato in mausoleo, il più sacro dei luoghi laici, la scuola?

I luoghi svuotati per necessità, e in fretta, non sono luoghi vuoti. Non sono luoghi messi a riposo, mandati in vacanza, sono luoghi sospesi, sgomberati bruscamente da una forza maggiore. Inquietano. Tutte le disutopie letterarie e cinematografiche del filone "l’ultimo uomo sulla terra" giocano su questa sensazione sconcertante e innaturale, di vedere come sarebbe il mondo se noi non fossimo lì. Se l’umanità, senza rumore, senza macerie, fosse d’improvviso evaporata. Ma vedere una scuola dissipata di vita, questo fa male di più, perché una scuola è una fabbrica di futuro, e quella fabbrica sembra essere stata dismessa dalla sera alla mattina.

Poi arrivano i ragionamenti razionali: be’ no, queste sono le scuole che abbiamo ancora, queste scuole dovranno riaprire. E assieme, arriva il razionale sconcerto: ma come potremo riaprire queste scuole, fatte così, nel nostro distanziamento sociale prossimo venturo? Non erano state pensate per le cautele sanitarie, guardatele: i grandi tavoli per il lavoro di gruppo, gli attaccapanni ammucchiosi, il bagno spensieratamente comune con gli spazzolini da denti infilati nella stessa taschiera, i corridoi radice del verbo correre… C’è poco da sperare nel plexiglas. Qualcuno avrà un piano?

Sì, come le nostre strade, come i nostri abbracci, son bastati tre mesi per mutarli da allegri a sospetti, anche queste aule di scuola, rivisitate dopo il lungo fiato sospeso, deformate dalla paura dello sguardo pandemico, ci sembrano inadeguate, vecchie, pericolosamente "assembrate". Ah, le videolezioni asettiche. I tecno-euforici diranno questo. Investiamo in tecnologie distanziate, e finiamola lì.

Ma ancora un attimo, però, prima di girare pagina. Guardiamole meglio, queste fotografie. Con uno sforzo di memoria empatica. In aule più o meno così siamo cresciuti anche noi. Non sono quelle di Cuore. Le pareti dipinte a colorissimi, i tavoli sempre pieni di carte, le scritte con le letterone ritagliate: non è la scuola-fabbrica, dive si va uno per uno, e ciascuno per sé, a ritirare una porzione di sapere che spenderemo in un’altra fabbrica; questa è una scuola- comunità, dove l’orizzontale della relazione umana educa quanto il verticale della trasmissione del sapere, dove il connettivo è importante quanto la ciccia. È scuola anche quella degli spintoni in corridoio e delle spinte sull’altalena. Come è scuola, da più grandicelli, quella delle chiacchiere alla macchinetta delle bibite, o dei baci furtivi nell’angolo buio dietro i cappotti appesi.

Prenderemo allora le giuste precauzioni. Useremo la giusta mistura di online e fisico. Ma fermiamoci prima di trasformare la scuola in una colombaia asettica da schermo di videoconferenza, il panottico educativo dove tutti vedono e vengono visti, ma nessuno incontra nessuno.


FERMIAMO L’AUTONOMIA DIFFERENZIATA!

Al via la
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