La Stampa: “Cerchiamo rivoluzionari veri”
Il direttore di Nature: «GLI STUDIOSI ITALIANI SONO ECCELLENTI, MA NON SONO FINANZIATI IN MODO ADEGUATO»
MARCO PIVATO
Prendete bene gli appunti!». Parola di Leslie Sage, astronomo all'Università del Maryland e redattore capo di «Nature»: è arrivato in Italia, ospite dell’Università Milano Bicocca e dell’astrofisico Guido Chincarini, e spiega come il sistema «peer review» - la validazione degli articoli scientifici da parte di revisori esterni - è lo strumento-chiave e universale: è il varco da passare se si vuole fare lo scienziato.
Professore, quali sono i consigli per pubblicare su «Nature»?
«L’articolo deve possedere un elemento fondamentale: l’apporto di un vero cambiamento nel proprio campo. Questo è riconoscibile solo se il ricercatore si chiede: “Il mio articolo avanzerà il grado di conoscenza dei colleghi? Integrerà parti mancanti? Risponde a una o più domande che altri gruppi si stanno ponendo?”».
Voi revisori volete stupirvi?
«Ogni disciplina ha esigenze diverse, ma in tutte vale la capacità dell’autore di stupire e far pensare al revisore: “Non ci avevo pensato!”. Secondo aspetto: il ricercatore deve spiegare il perché. Deve esplicitare movente e intenzioni».
Quali sono le ingenuità più frequenti dei giovani ricercatori?
«La più frequente è dimenticare di spiegare approfonditamente il campo di pertinenza della propria ricerca e le relazioni con le altre scienze: bisogna contestualizzare, argomentare ciò di cui si scrive, evidenziando le applicazioni. È tipico, invece, dare per scontato che il revisore conosca ogni aspetto. Si devono fornire informazioni complete: non si deve prendere per sprovveduti i revisori, ma nemmeno pensare che conoscano tutti gli studi. Se non si tiene conto di questo, il revisore non saprà riconoscere e valutare il valore scientifico dell’articolo».
E poi ci sono i furbi: come si capisce se c’è malafede?
«Il sospetto nasce quando l’autore tralascia volutamente di citare altri autori che hanno contribuito, con ricerche precedenti, ad arrivare al proprio articolo. È un aspetto etico che i revisori hanno a cuore, ma purtroppo è un’astuzia che ricorre nel 15-20% dei “papers”. Si pensa di risultare più eclatanti. In realtà, per noi, è facile accorgerci delle omissioni, sia per esperienza sia perché abbiamo software appositi».
Anche «Nature», però, ha preso abbagli: voi, per esempio, rifiutaste di pubblicare l’articolo che poi valse il Nobel a Kary Mullis.
«E’ normale, data la mole di materiale trattata. Ma è sempre più difficile imbrogliare. I nostri software rivelano i “copia-incolla” da altri documenti. Ma, soprattutto, la scienza è “autogarante”: se qualcuno pubblica dati falsi, è difficile che qualche altro scienziato non se ne accorga. Successe nel 2002 a Jan Schön dei Bell Laboratories, proiettato verso il Nobel con una serie di articoli sui transistor molecolari pubblicati da noi. Colleghi dell’Università di Princeton e della Cornell si accorsero che i transistor di Schön non potevano essere realizzati. Lo spiegarono, rendendolo vittima dei suoi stessi raggiri».
Non c’è nessun punto debole nel sistema di «peer review»?
«Ciò che temiamo di più è imbatterci in autori o in revisori che tengono nascosti potenziali contratti o interessi che hanno con terzi. E’ una possibilità, per fortuna, rara: accade nel 5% degli articoli».
Lei legge articoli da tutto il mondo: che differenze ci sono tra le comunità di scienziati, dall’Europa all’America e all’Asia?
«Non sono rilevanti. Il modo di scrivere la scienza non è quello dei romanzi: segue regole universali. Inoltre, va globalizzandosi. Quando mi arriva una proposta, non mi chiedo chi sia l’autore né da dove provenga. E’ possibile che riceva un articolo da Harvard assieme a quello di un neo-laureato di una remota università del Sud dell’Italia e che rigetti quello del senior di Harvard».
Qual è il livello degli articoli italiani che le vengono inviati?
«Gli italiani sono ottimi scienziati. L’Institute for Scientific Information, che costituisce il riferimento per l’individuazione dei criteri di adeguatezza formale delle riviste scientifiche rispetto agli standard internazionali, dice che l’Italia ha una frequenza di citazione dei propri studi superiore alla media europea. Considerando anche le altre riviste, oltre a “Nature”, l’Italia è il sesto produttore, per quantità, di articoli: il vostro Paese è nel G7 della letteratura scientifica. Da voi, quindi, l’eccellenza c’è, ma non è adeguatamente sovvenzionata e valorizzata».
Da quale scienza si aspetta le maggiori innovazioni?
«La biologia e la genetica. Se non altro perché è lì che ora si investe di più. Ma non si può scommettere da dove arriverà la prossima rivoluzione. Alla fine del XIX secolo sembrava che la fisica non avesse più niente da dire, ma poi sono arrivati Bohr, Einstein e Heisenberg. Sarei tentato di dire che sarà la conferma dell’esistenza della materia oscura a costituire la prossima rivoluzione. Ma nella mia carriera di astrofisico ho imparato che l’Universo è troppo complicato: meglio puntare i telescopi non per trovare giustificazione a ciò che ci aspettiamo, ma per trovare ciò che non ci aspettiamo».