La Stampa: Concorsi come foglie di fico
Chiara Saraceno
Chiara Saraceno |
|
Un merito va riconosciuto al ministro Gelmini: aver provocato una discussione pubblica, all’interno dello stesso sistema universitario, sul sistema di reclutamento e di valutazione della ricerca. Non ci sono mai stati tanti articoli sull’argomento e anche franche contrapposizioni, da parte di docenti. La fretta, la procedura d’urgenza, una certa idea dei professori come tutti tendenzialmente imbroglioni, rischia però di aver prodotto una soluzione non migliore e forse peggiore di quella che si voleva emendare riguardo al reclutamento (per la valutazione viene opportunamente rimandato a una definizione dei criteri). Non si è avuto il coraggio di affrontare i veri nodi del reclutamento: il concorso e la divisione delle competenze in settori disciplinari, la cui logica e contenuto sono spesso frutto di alchimie che poco hanno a che fare col rigore scientifico. Affidare la valutazione a un’estrazione a sorte dei commissari non garantisce dall’arbitrio (o dal clientelismo). Invece del pupillo di X vincerà quello di Y, miracolato dall’estrazione. Il sistema non risponde neppure al problema, ignorato nelle varie riforme dei concorsi, di come far sì che le facoltà che hanno bandito il concorso possano avere, senza dover fare operazioni sottobanco, non la persona che vogliono, ma quella che ha le specifiche competenze di cui hanno bisogno. Una facoltà che ha bisogno di un esperto di metodi quantitativi si può ritrovare un etnometodologo o un esperto di politiche sociali, per il solo fatto che queste competenze sono state raggruppate nello stesso settore disciplinare. Ha solo il diritto di non chiamare uno dei vincitori. Come se un’azienda cercasse un ingegnere aeronautico e si trovasse ad assumere, per decisione esterna, solo tra, bravissimi, ingegneri gestionali.
Nella maggioranza dei paesi europei e anche negli Stati Uniti, spesso evocati come modello da imitare, non esiste il concorso. Le persone sono reclutate - attraverso bandi pubblici - con un sistema che, nelle sue variazioni nazionali, in Italia verrebbe definito non universalistico, localistico, se non peggio. Ma che a differenza di quello italiano garantisce sia trasparenza nei criteri e nelle procedure che efficacia rispetto all’obiettivo di trovare il candidato migliore per la posizione disponibile. Sono le facoltà, e i docenti di un determinato gruppo di discipline, o i gruppi di ricerca, a definire il profilo scientifico e le qualificazioni richieste e a operare una prima selezione sulla sola base dei curricula. I candidati che la superano (un numero raramente superiore a 10) sono invitati a presentarsi per un colloquio in un contesto aperto a tutti gli interessati. Quanto più elevato è il livello, tanto più complesse le prestazioni richieste in questa fase, al contrario di quanto avviene in Italia: oltre al colloquio, un aspirante professore ordinario (o un professore già ordinario che vuole cambiare università) deve tenere un seminario pubblico, per essere valutato anche dagli studenti, oltre che dai potenziali colleghi. Tutto ciò consente di reclutare, con procedura pubblicamente controllabile, non la persona astrattamente migliore, ma quella migliore per quel posto.
Anche con questo metodo possono operare personalismi e relazioni di potere. Ma la pubblicità delle procedure da un lato, il fatto che il prestigio scientifico di una facoltà conti sia sul piano dei finanziamenti che su quello delle iscrizioni degli studenti e sulle loro chances nel mercato del lavoro, costituiscono un potente strumento di controllo e di deterrenza da procedure troppo disinvolte. Non è che negli altri paesi i docenti sono per virtù innata più onesti o più rigorosi degli italiani. Hanno un altro sistema di incentivi. Sono questi da cambiare, eliminando il concorso, foglia di fico di un universalismo nel migliore dei casi astratto, nel peggiore finto. Tutto il resto è inutile accanimento terapeutico. |