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La Stampa: Il ministro Gelmini: «Grande opera per attirare cervelli stranieri»

Il piano per scegliere le aree di investimento, la riforma degli enti e l'assunzione di nuovi addetti

14/03/2009
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La Stampa

Ministro Mariastella Gelmini, per alcuni lei ha dimenticato il mondo della ricerca scientifica che assieme alla pubblica istruzione e all'Università è il suo terzo compito....
«Stiamo lavorando e per giugno sarà pronto il piano nazionale della ricerca in occasione del G8».
E che cosa prevede?
«Stabiliamo delle priorità per trasformare la situazione di crisi in cui ci troviamo in un'opportunità di rilancio. Le risorse non sono certo ampie ma il settore, grazie anche all'intervento del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, non ha subito tagli».
Quali sono le priorità scelte?
«Innanzitutto è da valorizzare il settore agroalimentare e ad esso si affiancano l'ambiente e l'energia con le cosiddette "tecnologie verdi", la biomedicina e lo spazio. In quest'ultimo abbiamo maturato alcune competenze da difendere ed esistono già sulla Penisola realtà internazionali importanti, come il centro dell'agenzia spaziale europea di Frascati impegnato proprio sulla ricerca ambientale. Dobbiamo, inoltre, ripensare la programmazione della ricerca adesso inesistente. Ogni ente ha il suo piano ma la loro somma dimostra solo una frammentazione improduttiva. Voglio arrivare ad un progetto ricerca-Paese in cui si concentrano gli interessi tenendo conto delle esigenze della realtà industriale dove i giovani troveranno lavoro».
Un'impresa ardua, altre volte tentata senza grandi risultati. Lei come pensa di materializzare questa ambizione?
«Attraverso una serie di interventi. Ad esempio, dobbiamo realizzare in Italia una grande infrastruttura di ricerca, come del resto ci chiede l'Unione. Un centro, per capirci, come il Cern di Ginevra, un modello a cui far riferimento per diversi motivi».
Quali sarebbero?
«Prima di tutto perché è un luogo dove si fa ricerca al top della conoscenza attraendo i cervelli da altri continenti. Al Cern la costruzione del nuovo acceleratore Lhc, al quale hanno dato il contributo centinaia di ricercatori italiani attraverso l'Istituto nazionale di fisica nucleare, si è rivelata la giusta via per alimentare la ricerca, creare innovazione tecnologica nelle aziende coinvolte e sviluppare conoscenze applicabili in altri settori della vita quotidiana. Dagli studi al Cern, oltre all'invenzione del Web è nata anche la nuova macchina adronica con la quale si curano a Pavia i tumori».
Con che risorse, se non ci sono, può nascere una nuova grande infrastruttura di ricerca?
«Recuperando fondi da piccoli progetti poco utili eliminabili e da mille accordi di programma che rispondono a necessità lontane dalla scienza. Ma vorrei pure utilizzare a tale scopo i fondi Fas gestiti dalla Presidenza del Consiglio che magari finiscono in accordi clientelari. Insomma, eliminando degli sprechi e concentrandoci in una direzione precisa evitando di moltiplicare inutilmente le iniziative». Ma quali sono per lei i problemi più gravi della ricerca italiana: i fondi scarsi, il ridotto numero dei cervelli, le infrastrutture inadeguate...
«Certo, senza soldi è difficile lavorare, ma già nei finanziamenti attuali esistono margini in cui si possono effettuare degli interventi e rendere più efficaci le disponibilità. Ma più necessario ancora è gestire con managerialità. Entro dicembre completeremo il riordino degli enti di ricerca proprio per arrivare ad una migliore gestione e valorizzare i buoni cervelli che oggi sono mortificati e sono numerosi».
I cervelli appunto. Esiste una differenza abissale nel numero con altri Paesi europei. Che cosa intende fare?
«Intanto con il recente decreto abbiamo creato quattromila nuovi posti per ricercatore che sono slegati dalla sistemazione dei precari. E non è poco, per cominciare».
E i conti con i precari, come li fa. Lavorare in questa condizione non aiuta certo l'entusiasmo. E poi è un'esercito ormai?
«Infatti, tra università e ricerca, non sappiamo nemmeno noi quanti siano. Per questo abbiamo avviato un censimento al fine di avere una fotografia precisa della realtà sulla quale incidere. Certo è che con la mancata approvazione della "norma dei 40 anni" si è persa un'importante occasione perché avrebbe consentito, attraverso dei prepensionamenti, di liberare posti nei quali inserire appunto i precari. Però bisogna tener presente che non è possibile stabilizzare tutti, è una proposta demagogica perché non ci sono le risorse necessarie e poi non sarebbe neanche giusto».
Perché non lo sarebbe?
«Anche qui bisogna distinguere. Non tutti sono precari allo stesso modo. Ed è opportuno valutare qualità e profili tecnici in base agli indirizzi».
Un altro male riconosciuto è la scarsa ricerca privata nel nostro Paese. Non c'è più la Montecatini capace di sostenere Giulio Natta al Politecnico di Milano che scopre il Moplen e conquista il Premio Nobel per la chimica, ultimo Nobel nato nella Penisola. Era il 1963. Ha iniziative su questo fronte?
«Qualche incentivo, concedere crediti d'imposta come già stiamo facendo e finalizzare meglio le risorse a disposizione. Di più non si può. Le agevolazioni fiscali sono comunque uno strumento utile». Per stimolare il rapporto tra ricerca pubblica e privata negli ultimi anni sono stati creati i distretti tecnologici. I risultati, tuttavia, non sono stati gratificanti e in qualche caso ci si chiede se i fondi siano andati nel posto giusto...
«Affronteremo anche i distretti e taglieremo i progetti che si sono rivelati inadeguati valutando l'impatto avuto sul territorio. L'intervento sarà attuato dall'Agenzia per le nuove tecnologie e non sarà indolore. Ma non si può continuare a finanziare senza un risultato: la selezione è necessaria».
Sempre su questa difficile prima linea c'è l'idea del presidente del CNR Luciano Maiani di rilanciare i progetti finalizzati nati negli anni Settanta proprio alla scopo di creare un ponte tra ricerca pubblica e privata fornendo a quest'ultima occasione di nuovi brevetti. Condivide?
«Bisogna farli partire: li approvo perché saranno un aiuto prezioso. Ma dovranno seguire gli indirizzi del piano che stiamo preparando».
Di tutti gli ostacoli si parla da tempo, ma ce n'è uno forse ancora più grande: i giovani da noi non vedono la ricerca come un mondo per il loro futuro. Coltiva una risposta?
«E' forse il problema più grave e anche quello più arduo da risolvere. Per questo bisogna cambiare la scuola e motivare gli insegnanti. E diffondere, soprattutto, la cultura scientifica come stiamo facendo con la commissione presieduta da Luigi Berlinguer con cui sono in perfetto accordo. E i media devono raccontare di più le magnifiche storie dei nostri scienziati».

Giovanni Caprara