La Stampa: “In Italia si studia poco E l’economia perde terreno”.«Laurearsi, da noi, rende poco: la metà che in Francia, un terzo che in Inghilterra»
Libro-denuncia di Ignazio Visco: il divario con gli altri Paesi si allarga «Un anno di studio in più potrebbe aumentare del 5% il prodotto pro capite»
È perché gli italiani sono poco istruiti che l’economia italiana perde terreno nel mondo. Lo sostiene Ignazio Visco, vicedirettore generale della Banca d’Italia, che ha appena pubblicato dal Mulino Investire in conoscenza, un libro dove si parla del rapporto difficile che un paese di antichissima cultura ha con la cultura. «I motivi del nostro ritardo sono parecchi, sono complessi», spiega, «ma è la qualità del capitale umano, come diciamo noi economisti, quello su cui credo valga più la pena di concentrare gli sforzi».
Lei denuncia che abbiamo un livello di istruzione basso, con pochi stimoli a migliorarlo.
«Il divario con gli altri paesi è ampio, 11% di laureati nella popolazione tra i 25 e i 64 anni, rispetto al 25% nei paesi Ocse, 14 punti di distanza. Per giunta, si allarga. Nelle fasce più giovani, tra i 25 e i 34 anni, 15% di laureati contro il 31% della media Ocse, 16 punti di distacco».
In Italia studiare conviene poco.
«Strano. Se una merce è scarsa il suo prezzo aumenta. A bassi tassi di istruzione dovrebbe corrispondere un rendimento dell’istruzione elevato. Nei paesi Ocse in genere è così. L’Italia sembra una singolare eccezione. Il divario tra la paga di un laureato e quella di un diplomato è inferiore, 53%, contro valori assai più alti altrove, fino all’81% negli Stati Uniti. Un calcolo più preciso, il rendimento dello studio, che tiene conto di tutti i costi e i benefici, conferma che laurearsi, da noi, rende il 6,5%. È sempre molto più di un investimento finanziario, ma la metà che in Francia e negli Usa, poco più di un terzo che in Gran Bretagna».
I laureati dei call center prendono all’ora quanto una colf. Ma altri il posto fisso lo trovano.
«Anche le retribuzioni dei giovani che trovano un posto fisso si sono abbassate. Potrebbe non essere un male, se poi vi fosse un rapido avanzamento di carriera. Invece recenti studi mostrano che negli ultimi 20 anni è cresciuto il divario di paga tra laureati giovani e laureati anziani».
Il precariato esiste anche altrove; la stranezza che lei descrive è solo italiana.
«C’è un circolo vizioso con la bassa qualità dell’istruzione. I test PISA dell’Ocse mostrano che il 25% dei nostri ragazzi ha competenze scientifiche insufficienti, contro il 19% della media dei 30 paesi. L’impresa che assume non ha modo di valutare dai voti la qualità vera dell’istruzione; nell’incertezza, paga di meno o, peggio, ricade su criteri rozzi, come la famiglia di origine o le raccomandazioni».
Siamo un paese in cui costosi licei privati non forniscono un’istruzione migliore, solo promozioni più facili.
«La mobilità sociale è bassa, e la mancanza di una valorizzazione del merito vi contribuisce. Troppi figli fanno lo stesso mestiere dei padri. Altra particolarità italiana è una quota elevatissima di lavoratori autonomi, 26% degli occupati, contro il 7-12% di Usa, Francia e Germania».
Un sistema produttivo arretrato chiede pochi laureati, i laureati scadenti non offrono la materia prima per migliorarlo. Ma serve proprio essere colti per sfruttare le tecnologie? Gli italiani si vantano della propria inventiva...
«Molti studi suggeriscono che vi è un legame tra livello di istruzione e produttività del lavoro. Un anno di istruzione in più per la media della popolazione potrebbe aumentare il prodotto pro capite del 5%».
E in questa crisi?
«Non sono convinto che ne usciremo meglio perché siamo un paese manifatturiero, ovvero perché crolla la finanza ma la manifattura resta. Le economie più colpite sono quelle manifatturiere, come Germania e Giappone. È vero invece che il terziario può crescere e diventare più efficiente. Molti vincoli all’economia, molti “lacci e lacciuoli” possono essere rimossi. Però insisto che, se c’è qualcosa su cui conviene impegnarsi, è la qualità del capitale umano. Ne può anche derivare maggiore senso civico, rispetto delle regole, in breve un più alto capitale sociale».
Secondo i dati, nella scuola si spende troppo, nell’università troppo poco.
«Solo nelle elementari spendiamo molto più degli altri paesi, con risultati migliori, nel confronto, rispetto alle superiori, però modesti per gli immigrati. Servono standard nazionali sui quali valutare in modo omogeneo la preparazione; nell’università probabilmente va abolito il valore legale della laurea. L’investimento in conoscenza è a lungo termine, e ci vorrà tempo per vederne i frutti; ma secondo me è una scelta obbligata. Un paese che sembra averla fatta con successo è la Corea del Sud, che molti pensavano sarebbe uscita male dalla crisi asiatica del ‘97-‘98».