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La Stampa: “Ma la mia riforma non è stata un fallimento”

Luigi Berlinguer

17/09/2009
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La Stampa

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Offeso? Niente affatto. Sono abituato a ragionare oggettivamente. E oggettivamente dico che il “3+2” non è stato un fallimento. È un processo irreversibile. Se qualcuno pensa di tornare indietro sbaglia. Di più: ci allontana dall’Europa». Luigi Berlinguer, europarlamentare del Pd, è il “papà” della riforma che ha plasmato l’Università degli ultimi dieci anni. La stessa che, secondo il ministro Gelmini ha prodotto troppi corsi, professori e sedi, spese eccessive e poca qualità.

Davvero le critiche del ministro Gelmini non l’hanno colpita?

«Preferisco analizzare i fatti».

I fatti dicono che la sua riforma scricchiola.

«Non è vero. Si doveva rendere “europeo” il nostro sistema universitario: in Italia ci si laureava in media a 27 anni e mezzo, contro i 21 degli altri paesi. Oggi l’età si è abbassata, il 60 per cento dei laureati ha svolto uno stage aziendale (eravamo al 30) e l’Università si è aperta al mondo del lavoro».

Ma il quadro complessivo è peggiorato.

«Alcuni dati testimoniano il contrario. Dal 2004 la percentuale di chi frequenta le lezioni è raddoppiata. L’Ocse ci accusava di avere pochi laureati; sono passati da 172mila del 2001 a 293mila del 2008».

Sì, ma tanti si laureano due volte: triennale e specialistica.

«Vero. Però ci sono più persone con un titolo di studio. Tanti con la vecchia laurea quadriennale ottocentesca non si sarebbero nemmeno avvicinati all’Università. Infine tra i “dottori” del 2008, il 72 per cento non ha nessun genitore laureato».

E le spese? Si è creato un pachiderma?

«L’Italia non spende troppo. Spende male. E investe una cifra irrisoria nella ricerca».

Il 3+2 arranca proprio alle fondamenta: perché quasi nessuno si ferma dopo i primi tre anni?

«Colpa della nostra pubblica amministrazione, ottocentesca e ottusa, che non vuole riconoscere valore alle lauree “brevi”. Solo le imprese stanno cominciando a farlo».

E le sedi e i docenti, moltiplicati?

«Il ministro ha ragione, ma che relazione c’è tra quest’espansione e la riforma? È come se un agricoltore, per estirpare la gramigna che s’annida nel suo campo di grano, spargesse il diserbante, distruggendo tutto. Semmai vanno puniti certi atenei».

Già, ma chi li sanziona?

«Va cambiata la governance delle università: le scelte di fondo non possono essere decise da organi corporativi, si rischia di non perseguire il bene comune. Poi, valutare i risultati. In questo caso la strada intrapresa dal ministro è giusta».

Pentito della sua riforma?

«Ad aprile 46 ministri si sono riuniti e hanno stabilito di proseguire sulla strada tracciata nel 1998 da quattro “matti”: un tedesco, un francese, un inglese e un italiano. L’italiano ero io. Dobbiamo garantire una laurea di qualità, riconosciuta negli altri paesi e spendibile. Questa è la vera frustata che va data agli atenei italiani. Serve un’Università mondiale, non padana». [FIRMA]FLAVIA AMABILE

ROMA

Dal 2010 le università non potranno più barare: dovranno ridurre il numero di corsi e di docenti a contratto, o addirittura senza stipendio. Il decreto è quasi pronto, ora è all’esame del Comitato Nazionale per la Valutazione per un parere tecnico, e il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini vorrebbe presentarlo ufficialmente entro fine mese, o al massimo agli inizi di ottobre. Soltanto le nuove regole sul numero dei crediti dovrebbero prendere la strada del disegno di legge. L’obiettivo è di rendere le novità operative già a partire dal prossimo anno accademico. E operativo, a questo punto, sarà un sistema di controlli legato a precisi parametri numerici: chi non li rispetta, sarà tagliato fuori dai finanziamenti.

Le lauree brevi, il 3+2, hanno mostrato i loro limiti ha scritto il ministro in una lettera agli atenei ma, insieme con la lettera, erano presenti anche le novità in arrivo per superare i problemi degli ultimi anni. Sono contenute in un documento molto duro nei confronti degli atenei e della loro gestione. Negli ultimi mesi il numero di prof senza stipendio era aumentato a dismisura: il ministro non ha mai fatto mistero di non amare né il proliferare di corsi né di professori non di ruolo. Con il decreto in preparazione chiederà alle università di aumentare il numero di docenti di ruolo per ogni corso di laurea attivato secondo regole molto rigide. Innanzitutto è stabilito che dal 2010 i docenti di ruolo dovranno essere almeno il 60% e dal 2013 il 70% dei corsi erogati. Vanno considerati solo i professori in servizio e non quelli dei concorsi ancora in itinere per evitare che si attivino corsi sulla base solo dei bandi come è capitato.

Spesso i docenti vanno in pensione per limiti di età e poi vengono riassunti perché considerati persone di particolare valore nel loro campo. Questo chiaramente limita il numero di posti disponibili per i docenti più giovani: il decreto un tetto di 2 docenti in pensione per ogni corso di laurea, 1 per ogni corso di laurea magistrale e 3 per ogni corso di laurea magistrale a ciclo unico.

A scongiurare il pericolo di prof senza stipendio, esterni o a contratto arriva una formula matematica a calcolare per ciascun ateneo il numero massimo di ore tra i diversi tipi di docenti. C’era un’altra abitudine all’interno delle università: si prendevano in considerazione alcuni «sconti» nella valutazione dei docenti che riduceva il numero di requisiti necessari per reclutarli. Il ministro intende eliminarli del tutto.

Sono diventati noti i corsi seguiti da un solo studente. Il decreto aumenterà il tetto minimo di studenti per mantenere in vita i corsi. Ora è di 10 studenti per un corso di laurea e 6 per un corso di laurea magistrale: si attende il parere del Comitato per stabilire i nuovi limiti che comunque saranno prescrittivi: chi non li rispetta si vedrà cancellare il corso.

Non si potrà più stabilire in maniera del tutto autonoma il numero di nuovi corsi di laurea se si tratta di corsi molto simili fra loro. Vi saranno limiti precisi per evitare sovrapposizioni. Per evitare la frammentazione e il proliferare degli insegnamenti nei corsi di studio dovranno avere tutti non meno di 6 crediti. In questo modo si potrà avere anche un parametro comune nella valutazione degli studi tra diverse università e quindi facilitare la mobilità degli studenti da un ateneo all'altro. Per lo stesso motivo saranno previste date omogenee di inizio e fine anno accademico, una diversa valutazione delle ore e dei crediti a seconda del tipo di laurea.