La Stampa: “Per non fare danni i politici devono studiare le scienze”
Intervista a Richard Muller Scienziato ed ecologista Il guru della fisica: anche Al Gore sbaglia. Attenti alle scoperte che fanno audience
EMANUELE NOVAZIO
Professor Muller, in «Fisica per futuri presidenti» lei sostiene che avere le giuste conoscenze scientifiche è indispensabile per prendere corrette decisioni politiche. Perché?
«Perché viviamo in un mondo tecnologico nel quale si prendono decisioni su armi nucleari, cambiamenti climatici, spazio. Non basta affidarsi a consiglieri scientifici: un leader deve tener conto di realtà diplomatiche, economiche, finanziarie. E deve avere competenze in tutti questi settori».
Lo stesso vale per la bioetica, per esempio quando si deve decidere sulle cellule staminali o sull’alimentazione forzata a malati terminali?
«Per me questi sono prima di tutto quesiti etici, non scientifici. Altra cosa, per intenderci, dai cambiamenti climatici».
Lei concorda con chi paventa scenari catastrofici a meno di interventi radicali?
«È giusto preoccuparsi del riscaldamento globale. Ma Al Gore esagera col suo allarme. Il riscaldamento globale è pari a mezzo grado Celsius, secondo una valutazione scientifica condivisa. Non ha potuto avere tutti gli effetti che Gore sostiene abbia avuto».
Il che porta a chiedersi se c’è relazione fra la dipendenza della politica dalla scienza e la necessità della politica di creare consenso.
«Certo, e proprio per questo credo che Gore non produca consenso. Gli americani cominciano a capire che esagera, e la conseguenza è la perdita di interesse per i cambiamenti climatici: pensano di essere ingannati».
Secondo lei dunque esiste una conoscenza oggettiva alla quale tutti si devono riferire?
«Sì, la scienza ha ottenuto prestigio grazie alla capacità di essere obiettiva. Gli scienziati non possono essere partigiani: sbagliano quando credono che il pubblico non li comprenderà e, per questo, modificano le loro conclusioni».
È possibile però che gli scienziati siano costretti a compromessi, per esempio per ottenere fondi per le loro ricerche.
«Ci sono pressioni che rendono difficile fare scienza, ma si deve resistere: non possiamo essere di parte quanto presentiamo i nostri risultati».
Lei suggerisce dunque ai politici di occuparsi di scienza e agli scienziati di non farsi coinvolgere dalla politica.
«Sì, questo è un messaggio molto importante. L’opinione pubblica comincia a considerare gli scienziati come fossero politici: ma così viene meno la fiducia nella scienza. Quando ci occupiamo di temi che non hanno ricadute politiche, le origini dell’universo per esempio, manteniamo uno standard di eccellenza. Il rischio c’è quando trattiamo temi che hanno risvolti pubblici come i cambiamenti climatici. Dobbiamo essere come i giudici in tribunale: non possiamo avere un’opinione quando rappresentiamo la scienza».
Cosa pensa della relazione fra scienza e potere?
«Quando ero giovane, gli scienziati avevano un enorme potere: nella Seconda guerra mondiale hanno realizzato l’atomica e il radar. Quel potere è in larga misura scomparso. E meno male: gli scienziati capiscono la scienza ma non sempre il modo in cui il mondo funziona. È molto più importante che i nostri leader comprendano la scienza piuttosto che gli scienziati riconquistino il potere che avevano in passato».
Possiamo paragonare il ruolo dello scienziato moderno a quello dell’artista rinascimentale?
È un’ottima analogia. Nel ’500 e nel ’600 i pittori erano universali, riunificarono il mondo. La scoperta di uno scienziato, oggi, è universale. A un certo punto però l’arte si è fatta sedurre dalla politica ed è diventata propaganda: la scienza corre lo stesso pericolo, può essere usata per scopi politici».