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La Stampa: «Sarà Dante a proteggerci dai kamikaze»

I MUSULMANI DEL NOSTRO PAESE SONO CONVINTI CHE IL MODELLO VINCENTE SIA: CITTADINANZA MA ANCHE SCUOLE PUBBLICHE E LAICHE

12/08/2006
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La Stampa

Non basta ricordare che anche Hanif Kureishi è cittadino britannico d’origini pakistane e anziché progettare la distruzione del suo Paese gli ha dato lustro con romanzi come «My Beautiful Laundrette» e «Love in a blue time». L’identikit dei ventuno arrestati a Londra, musulmani fisicamente residenti nel Regno Unito ma spiritualmente legati alle madrasse della patria Karachi, riporta l’Italia di fronte al rebus che dall’11 settembre 2001 tormenta la coscienza occidentale: l’integrazione è la cifra della società globale o il cavallo di Troia del terrorismo? Perché ancora una volta, dopo i blitz seguiti agli attentati del 7 luglio 2005, gli agenti di Scotland Yard hanno fatto irruzione in villette stile working class dove vivevano giovani uomini in tutto simili ai loro connazionali inglesi se non per il desiderio in sonno di farsi esplodere a bordo di un aereo in partenza da Heathrow recitando sure del Corano. «Ogni Paese fa storia a sé», replica all’unisono l’Islam italiano, eccezionalmente unito nel distinguere il modello multiculturale made in Britain dalle nostre balbettanti prove di dialogo con l’immigrazione. Una precisazione che pare quasi un’autocritica per la risposta di una parte della comunità musulmana alla fiducia del governo di Downing Street. Pare, perché poi le sfumature sono molte, lievi variazioni di tono in cui può insinuarsi la zona grigia e infida del giustificazionismo. «Saranno Dante e Petrarca a proteggere l’Italia dalla mina impazzita del multiculturalismo all’inglese» sostiene Osama al Saghir, ventitreenne d’origine tunisina e presidente dei Giovani musulmani in Italia (Gmi). Un’affermazione solo in apparenza bizzarra: «La cittadinanza è condizione necessaria ma non sufficiente per l’integrazione. Avete visto la biografia di Mohamed Atta, il kamikaze dell’11 settembre, o di quelli del 7 luglio? Gente che magari andava in discoteca, ma ignorava Shakespeare, la Magna Carta, la storia del Paese ospite». Lui, che sogna d’invitare il rapper Caparezza a uno dei congressi del Gmi, ritiene «salvifica» la mescolanza: «Tutto parte dalla scuola. I musulmani devono frequentare le scuole pubbliche e imparare a sentirsi orgogliosi di ricorrenze tipo il 2 giugno o il 25 aprile. Altro che quanto avviene nei ghetti di Londra dove i pakistani studiano come a Islamabad, i sauditi come a Riad, gli egiziani come al Cairo». L’educazione. Parola chiave anche per il marocchino Khalid Chaouki, redattore di Ansamed, autore del saggio «Salaam, Italia» e musulmano under 30 come, drammaticamente, la maggior parte degli aspiranti suicidi. «Ho pensato tante volte che quei ragazzi hanno la mia età», osserva Chaouki. «Potrebbero coltivare ambizioni, futuro, e invece aspirano al martirio. Sono spesso ignoranti, impreparati, facili vittime della propaganda dei media arabi che soffiano sul fuoco delle guerre accese dall’Occidente e della malìa dei predicatori di jihad». Secondo lui la Gran Bretagna liberal e gli intellettuali come Tariq Ramadan, che finora si sono concentrati sull’islamofobia degli inglesi, non dovrebbero trascurare il rischio dell’«occidentalofobia autoalimentata ad arte dei musulmani». Distinzione dunque, perché «il delirio di venti pazzi non può pregiudicare la vita di migliaia di persone oneste», e autocritica. Lo dice da anni Souad Sbai, presidente dell’Associazione donne marocchine e direttrice del mensile «al Magrebiya», «le religioni vanno rispettate e difese ma le moschee devono essere luoghi aperti con imam controllati. L’Italia non può cedere ai seminatori d’odio nascosti talvolta dietro organizzazioni altisonanti». Lo ripete a gran voce lo scrittore iracheno Younis Tawfik, che ha appena pubblicato con Bompiani il romanzo «Il profugo»: «L’integrazione va costruita con un lavoro strategico, evitando l’emarginazione diversa e simmetrica dei ghetti inglesi o parigini, ma chiedendo in cambio responsabilità, lealtà, partecipazione». Tutti d’accordo su un po’ d’autocritica, allora? In teoria. Perché Mohamed Nour Dachan, leader dell’Ucoii (Unione delle comunità e delle organizzazioni islamiche in Italia), la sigla che controlla buona parte delle nostre moschee, giudica gli arresti di Londra «un diversivo»: «Funziona sempre così, basta una notizia che metta all’indice i musulmani per far dimenticare i massacri compiuti in Libano e Palestina». L’Italia, a suo dire, non rischia alcunché dall’Islam locale. E poi, aggiunge Abdel Hamid Shaari, numero uno della discussissima moschea milanese di viale Jenner, «siamo sicuri che Scotland Yard abbia ragione? Alcuni mesi fa sono stati fermati a vuoto quattro presunti terroristi: erano innocenti. Proprio come qui, dove, per ora, le inchieste sul fondamentalismo islamico non hanno prodotto nulla». L’Italia insomma può continuare a guardare Londra da lontano leggendo i libri di Kureishi o Zadie Smith più che le biografie dei kamikaze: «Ogni paese fa storia a sé». E pazienza se siamo nel villaggio globale.