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La Stampa: Università, il fallimento del 3+2

J’ACCUSE DEL GOVERNO La minaccia «Taglio di finanziamenti agli atenei che hanno pochi studenti e non utilizzano bene i docenti di ruolo»

16/09/2009
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La Stampa

ANDREA ROSSI

TORINO

Il 3+2? Un fallimento. Le sedi? Troppe come i professori. Gli studenti? Fuori corso e poco preparati. I costi? Insostenibili. L’università? Da rifondare. Il documento porta la firma del ministro Mariastella Gelmini, ed è stato recapitato pochi giorni fa a tutti gli atenei italiani: poche pagine che fanno a pezzi l’università degli ultimi dieci anni e la riforma voluta nel 1998 da Luigi Berlinguer ed esortano i rettori a ridurre ancora corsi e docenti. Il 3+2 «non ha prodotto i risultati attesi»: i diplomati che si iscrivono all’università, passati da 61 al 74,5 per cento dal 1999 al 2003, sono ora in netto calo; un giovane su cinque abbandona alla fine del primo anno, come negli anni 90; i fuori corso sono in «costante aumento»; il 60 per cento si iscrive alle lauree specialistiche, addirittura l'80 in discipline «come Ingegneria, nelle quali era lecito attendersi l’acquisizione di una formazione di primo livello finalizzata a un titolo immediatamente spendibile sul mercato del lavoro».
Una débâcle totale, e non è finita. Nello stesso periodo, scrive il ministro «sono invece fortemente aumentate le dimensioni dell’offerta formativa e i costi, anche a causa della proliferazione delle sedi decentrate, un numero estremamente elevato e difficilmente sostenibile». Per di più «in oltre 70 sedi è attivo un solo corso, in 30 due». Dal 2001 al 2006 i costi sono aumentati del 20 per cento. Visti i risultati, scrive la Gelmini ai rettori, «appare difficile sostenere che questo aumento costituisca una risposta efficiente alle esigenze di miglioramento dell’offerta e della sua attrattività. Sembra anzi che risponda a logiche interne di sviluppo degli atenei o di diffusione territoriale».
Le università hanno moltiplicato sedi e insegnamenti, «malgrado i reiterati tentativi di contenimento». L’escalation coinvolge anche i docenti, cresciuti del 20 per cento in dieci anni (da 51 mila a 61 mila), «pari a due volte e mezzo l’aumento delle immatricolazioni». «Si è inoltre verificato un sensibile aumento del numero dei professori a contratto, esterni ai ruoli universitari, cresciuti del 67 per cento. Una crescita così significativa nell’arco di pochi anni sembra indicare un vero e proprio stravolgimento della natura stessa dell’insegnamento a contratto», scrive il ministro.
Fin qui la diagnosi. Poi vengono i rimedi, limitati per il momento ai soli atenei pubblici. Serve «una partecipazione molto incisiva del sistema universitario statale agli obiettivi di contenimento della spesa pubblica». Occorre tagliare. Come? Il ministro fissa due punti: riduzione di corsi di laurea e insegnamenti; pieno utilizzo dei docenti. I docenti a contratto - molti dei quali sono precari della ricerca - dovranno essere al massimo il 20 per cento degli strutturati. E per i docenti ordinari e associati va spinto al massimo l’orario didattico. Molti insegnamenti sono destinati a sparire. Il ministro non solo ne è consapevole, ma auspica una decisa sforbiciata: via tutti gli esami inferiori ai sei crediti (30-35 ore di lezione). Infine i corsi di laurea, troppi e con pochi studenti. Una legge del 2004 fissava i requisiti minimi al di sotto dei quali era «sconsigliato» attivare un corso: dieci studenti nelle triennali, sei nelle magistrali. Troppo poco. Quei limiti, scrive la Gelmini, vanno aumentati e resi tassativi. «I corsi con un numero di immatricolazioni inferiore ai valori minimi vanno disattivati». E gli atenei con corsi da pochi immatricolati, «anche se superiori ai minimi saranno penalizzati finanziariamente». Stesso discorso per chi utilizzerà poco e male «la propria docenza di ruolo». I rettori sono avvisati.