Iscriviti alla FLC CGIL

Home » Rassegna stampa » Rassegna stampa nazionale » «Laurea dopo i 28 anni? Da sfigati». Polemica sul viceministro Martone

«Laurea dopo i 28 anni? Da sfigati». Polemica sul viceministro Martone

Nella vasta levata di scudi che è seguita colpisce che in alcune dichiarazioni Martone sia stato «bocciato in marketing e comunicazione».

25/01/2012
Decrease text size Increase text size
Il Messaggero

di GIORGIO ISRAEL
IL VICEMINISTRO Michel Martone ha lanciato quel che egli stesso ha definito un «nuovo messaggio culturale»: «Dobbiamo dire ai nostri giovani che se non sei ancora laureato a 28 anni sei uno sfigato, se decidi di fare un istituto professionale sei bravo e che essere secchioni è bello, perché vuol dire che almeno hai fatto qualcosa». Nella vasta levata di scudi che è seguita colpisce che in alcune dichiarazioni Martone sia stato «bocciato in marketing e comunicazione».
Pare che non abbia alcuna importanza se quel che Martone ha detto è giusto o sbagliato. Conta il fatto che abbia comunicato e venduto male. È il simbolo di una brutta moda corrente: i contenuti non contano, conta solo l’apparenza. Piuttosto, lo scivolone comunicativo era la parola «sfigato»; e non tanto per ragioni di bon ton, quanto perché ha assonanze con la mala sorte e la jella, e quindi con una propensione nazionale a una tematica da cui sarebbe meglio tenersi alla larga.
Nel merito, come non convenire che il parcheggio fuori corso all’università oltre i 28 anni (fatti salvi i casi di studenti che lavorano e altre situazioni particolari) sia negativo? È un vecchio fenomeno alimentato dalla tendenza di molte famiglie a costringere i figli, anche se non ne hanno né voglia né capacità, a restare inchiodati nell’università pur di conquistare l’agognato «pezzo di carta». Ma qui occorre intendersi. Finora, per contrastare questo processo, si sono fatte solo scelte sbagliate, come l’introduzione della laurea 3+2, ovvero l’incongrua somma di una laurea triennale quasi inutile e dequalificata e di una laurea magistrale biennale che costringe a restare all’università un anno in più per raggiungere un risultato inferiore a quello che si otteneva con le lauree quadriennali. Apprendiamo che la Fondazione Agnelli promuove il 3+2. Su che basi? Su quelle dei numeri: aumentano i laureati, diminuisce di poco il tempo di permanenza all’università. Il che per un verso era prevedibile (visto che la prima laurea è più corta), e per altro verso può essere negativo: c’è proprio bisogno di tanti laureati in più? Della qualità di queste lauree, del livello di preparazione di coloro che ne escono non si cura nessuno: è di nuovo il disinteresse per i contenuti.
Su queste basi si avanza una nuova sconcertante proposta: separare del tutto la laurea triennale da quella magistrale, riservata soltanto alle migliori università. Il che prospetta la creazione di un sistema che sforna un gran numero di persone a bassa qualificazione e che, non potendo trovare lavoro in gran parte delle professioni (un laureato triennale in ingegneria, giurisprudenza, chimica, fisica, matematica o architettura è quasi senza prospettive) finiranno con il fare lavori per cui basterebbe la preparazione di un buon istituto tecnico-professionale. Avrebbe quindi ragione il viceministro Martone quando dice: «Se decidi di fare un istituto professionale sei bravo». Avrebbe ragione a due condizioni. La prima è che tale affermazione non nasconda un disprezzo per chi fa i licei, perché ci manca solo che si passi dalla svalutazione per la formazione tecnica alla svalutazione per la formazione umanistica e scientifica di base (e i sintomi di una tale tendenza sono evidenti). In secondo luogo, va ricordato che il nostro Paese aveva un’eccellente tradizione nella formazione tecnico-professionale che è stata compromessa da una serie di cattive riforme. In che direzione vogliamo procedere? Verso un’ulteriore riforma nel senso di una «descolarizzazione» che si impernierebbe sull’introduzione di un’unica materiona detta «scienze integrate» che dovrebbe introdurre concretezza e praticità e invece riflette soltanto astratte teorie pedagogiche?
Più in generale, per avere il diritto di parlare di «sfigati», come si parlò di «bamboccioni», ci vorrebbe un minimo di coerenza e sensatezza nella gestione delle istituzioni educative e soprattutto una seria offerta di prospettive ai giovani. Un esempio: sono passati più di tre anni da quando una commissione da me presieduta elaborò un regolamento per la formazione dei giovani insegnanti. Sebbene approvato non è ancora operativo, né si vede quando e se mai lo sarà. Così da più di tre anni - caso forse unico al mondo - l’accesso dei neolaureati italiani all’insegnamento è sbarrato. Pare che non si perda un’occasione per fabbricare sfigati e bamboccioni.
Il viceministro Martone ha poi intessuto una lode del «secchione». «Secchione» - secondo il Dizionario Treccani - è «propriamente un grosso secchio» e «con uso figurato spregiativo o scherzoso, alunno che, anche senza avere capacità eccezionali, raggiunge tuttavia risultati discreti o addirittura buoni applicandosi allo studio con ostinata diligenza». Vogliamo rivalutare questa figura? Convengo in toto. Ma allora occorre guardare in faccia la realtà e trarre le dovute conseguenze. Che esista la tendenza da parte degli studenti a disprezzare il «secchione» è cosa vecchia come il mondo. Che questa tendenza alligni nell’istituzione è invece cosa più recente e grave. Un insegnante cui chiedevo perché mai si dessero così pochi compiti a casa mi ha risposto: «Dice bene lei, ma sa quante sollecitazioni ci vengono dall’alto a non «caricarli», a farli studiare poco?». Ed è proprio così. «Giocare di più, videogiocare, leggere di meno», l’ho sentito dire, e più volte, da persone con il potere di decidere.
Montaigne disse giustamente che è meglio una testa ben fatta che una testa ben piena: un sacrosanto slogan contro il nozionismo. Alcune influenti correnti pedagogiche l’hanno trasformato nella formula: meglio una testa vuota ma ben fatta (da loro, s’intende) che una testa piena. Dimenticando che esistono sì teste piene e mal fatte, ma non esistono teste ben fatte che non siano ben piene. Da noi si propone insistentemente la scuola della metodologia pura, in cui contano solo le procedure, in cui l’organizzazione supplisce ai contenuti, in cui introdurre tecnologie dovrebbe risolvere ogni problema. Tutto questo nel quadro di una visione ampiamente teorizzata dagli «esperti»: la scuola open space, delle esperienze didattiche personalizzate, dell’apprendimento giocoso a gruppi, scegliendo gli argomenti più graditi in libertà, navigando in rete, con l’eventuale aiuto dell’insegnante-facilitatore.
Vogliamo rivalutare i secchioni? Benissimo. Ma allora ricordiamo che il secchione è uno che studia, e tanto. Non è il geniaccio che va avanti a base di intuizioni e che svolazza suggendo fior da fiore secondo quel che gli aggrada. Il secchione fa i compiti a casa ed è contento di farli. Il suo molto studiare, se è coadiuvato dalla guida di un buon insegnante (molto più importante di un tablet), può permettergli di fabbricarsi una bella testa. Il «secchione» è quello descritto da Albert Einstein quando disse che il genio è per l’1% ispirazione e per il 99% sudore. Avremo il coraggio di invitare coloro che gestiscono il sistema dell’istruzione a lanciare il messaggio culturale della rivalutazione del sudore? Chissà che per tale via non diminuisca il numero degli «sfigati».