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Le acque del Giordano

di Benedetto Vertecchi

13/11/2015
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A dar retta agli annunci che si susseguono attorno alla necessità dei cambiamenti

che occorre introdurre nel sistema educativo si direbbe che vi sia una grande

disponibilità d’idee che attendono solo di essere poste in pratica per dispiegare

effetti benefici. Non che di questi cambiamenti si sappia gran che, anche perché

escono già del tutto definiti dalla testa di chi li ha pensati, come Minerva da quella

di Giove. E il più delle volte nessuno saprebbe dimostrare che ciò che consegue

dai cambiamenti sia migliore di ciò che si intende cambiare. È una riflessione

sulla quale conviene tornare. Per il momento mi limito a segnalare che

manifestare un dubbio circa il miglioramento che deriverebbe da questo o quel

cambiamento equivale, il più delle volte, a cadere in una trappola ideologica, che

si fonda su quello che i burocrati chiamerebbero il combinato disposto di due

concetti. Il primo richiama elementi obiettivi: nel tempo T2 si manifesta qualcosa

che non appare nel tempo T1. Dal momento che è improbabile che vi siano

persone del tutto soddisfatte del funzionamento del sistema educativo, l’idea che

ci siano dei cambiamenti può suscitare attese positive, tanto più se a tali

cambiamenti si associano aspetti di contorno avvolti da aloni che ne accreditino la

rilevanza. L’altro concetto, indispensabile per far scattare la trappola ideologica, è

quello di miglioramento: chi non vorrebbe che l’educazione fosse migliore di

quella che è? Lo vorrebbe anche se, per avventura, presentasse già, al momento,

caratteristiche rispondenti a un disegno di sviluppo per i bambini e i ragazzi

capace di assicurare loro l’acquisizione di un profilo culturale che ne sostenga la

capacità di produrre un pensiero autonomo nel seguito della vita. Tuttavia,

tralasciando questa improbabile congettura, formulata solo per condurre

un’argomentazione per absurdum, è del tutto evidente che il concetto di

miglioramento è talmente saturo di ambiguità da non avere altra funzione, in

coppia con quello di cambiamento, che di richiamare un consenso facilitato dalla

contiguità delle proposte con dicerie di senso comune.

Posso ora tornare alla riflessione che avevo lasciato in sospeso, e cioè che è raro

che alle proposte di cambiamento si associ una previsione realistica delle

conseguenze che potrebbero derivarne. Altre volte ci si accontenta di osservare gli

effetti a breve termine, e non si considerano quali potranno essere nei tempi

lunghi. Mi viene in mente la convinzione con cui un mezzo secolo fa respingeva

la pratica dell’imparare a memoria. Non che non vi fossero argomenti per opporsi

a pratiche del tutto ripetitive, ma doveva, appunto, trattarsi di pratiche del tutto

ripetitive. Sarebbe stato più saggio cercare di distinguere quando certe pratiche

fossero solo forme di addestramento e quando fossero invece la premessa per lo

sviluppo di attività riflessive: e ciò valeva per le conoscenze linguistiche come per

quelle matematiche, per l’osservazione naturalistica come per lo studio della

storia, per consentire espressioni creative (nella recitazione, nelle arti figurative,

nella musica) come per sostenere percorsi di scoperta di qualche durata. Non

sarebbe male osservare quali delle difficoltà di apprendimento che incontrano i

bambini e i ragazzi che ora frequentano le scuole siano in qualche misura

collegabili ad una attenuazione della memoria. L’ipotesi che mi sento di

formulare è che un maggiore esercizio della memoria aumenti l’autonomia del

pensiero: parafrasando Sant’Agostino, sarebbero valorizzate le risorse disponibili

in interiori puero. Credo che molti insegnanti abbiano pensato qualcosa di simile,

ma non abbiano potuto contrastare efficacemente un’opinione comune che

considerava un male (siamo in piena ideologia) l’apprendimento a memoria.

Aloni altrettanto rivelatori d’ideologia hanno circondato cambiamenti

dell’organizzazione delle scuole e delle pratiche didattiche, considerati un bene

senza che in alcun modo ci si preoccupasse di dimostrarlo e, anzi, anche in

presenza di elementi che, se riguardati con attenzione, avrebbero spinto ad altre

conclusioni. Si è trattato, e si tratta, per lo più di aloni sapientemente diffusi e

rafforzati da soggetti il cui rapporto con l’educazione non si qualifica come

primario ma opportuno per conseguire altri intenti. Da decenni sento ripetere che

le attività didattiche delle scuole secondarie devono essere integrate da periodi di

tirocinio nelle aziende, perché l’apprendimento teorico (ma perché mai si deve

considerare necessariamente tale l’apprendimento scolastico?) possa affiancarsi a

esperienze qualificate in vista dell’inserimento dei giovani che fruiscono di

educazione sequenziale nelle attività produttive. Le aziende sarebbero di

conseguenza accreditate di una capacità educativa che non deve essere dimostrata,

e neanche posta in dubbio, come invece spesso accade per le scuole. Non starò qui

a ricordare che gli effetti di una simile immersione nelle acque del Giordano sono

ancora da osservare, né che il potere salvifico delle aziende non sembra andare

molto oltre la ripresa periodica di formule propiziatorie. Mi limito a ricordare

(ormai la memoria ha funzioni sovversive) che i ragazzi che oggi frequentano le

scuole secondarie, e che poi in maggioranza s’iscriveranno all’università,

potranno metter piede, se saranno molto fortunati, in un’azienda non prima di un

lustro dal momento in cui siano stati impegnati in esperienze di tirocinio. Dubito

che dopo un tale lasso di tempo (a maggior ragione se fosse più lungo di quello

indicato) vi sia ancora qualcosa che richiami l’esperienza compiuta, che si tratti

dell’organizzazione del lavoro o degli impianti produttivi, delle tipologie dei

prodotti o della loro commercializzazione e via discorrendo. Se ragioniamo in

termini di più lustri (ovvero, in termini più realistici), ci si dovrebbe incominciare

col chieder se le attività delle quali di è avuta esperienza tramite i tirocini esistano

ancora e se le più richieste non siano proprio le attività delle quali non si poteva

avere esperienza, per la buona ragione che ancora non esistevano. Allora, perché

si pone tanta enfasi sui periodi di esperienza in azienda?

È abbastanza strano che i maggiori sostenitori della necessità del tirocinio, che si

dovrebbero distinguere per la concretezza delle loro proposte, poi limitino le loro

riflessioni sulle esperienze di cui gli allievi hanno fruito a pochi aspetti affettivi.

Anche in questo caso le scuole avrebbero la possibilità di far valere il loro

giudizio tramite progetti di ricerca orientati in senso diacronico. Mi chiedo se sia

così diffusa tra gli insegnanti la convinzione degli effetti salvifici delle esperienze

nelle aziende. Riflessioni non diverse potrebbero essere sviluppate per altri

cambiamenti che si vorrebbero introdurre nel sistema educativo, a cominciare da

quelli che riguardano le dotazioni per l’insegnamento e l’apprendimento. Il fatto è

che per avere risposte non ideologiche dovrebbero essere accuratamente evitate

metodologie che lascino spazio all’apparire a favore di soluzioni che consentano

di rilevare ricadute non effimere. Sappiamo tutti che un’apparecchiatura digitale

ha una capacità di calcolo incomparabile con quella di un pallottoliere. Quel che

non è dimostrato è che un’apparecchiatura digitale sia più adatta di un

pallottoliere a promuovere un pensiero


Presentazione del libro il 18 novembre, ore 15:30
Archivio del Lavoro, Via Breda 56 (Sesto San Giovanni).

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