Le acque del Giordano
di Benedetto Vertecchi
A dar retta agli annunci che si susseguono attorno alla necessità dei cambiamenti
che occorre introdurre nel sistema educativo si direbbe che vi sia una grande
disponibilità d’idee che attendono solo di essere poste in pratica per dispiegare
effetti benefici. Non che di questi cambiamenti si sappia gran che, anche perché
escono già del tutto definiti dalla testa di chi li ha pensati, come Minerva da quella
di Giove. E il più delle volte nessuno saprebbe dimostrare che ciò che consegue
dai cambiamenti sia migliore di ciò che si intende cambiare. È una riflessione
sulla quale conviene tornare. Per il momento mi limito a segnalare che
manifestare un dubbio circa il miglioramento che deriverebbe da questo o quel
cambiamento equivale, il più delle volte, a cadere in una trappola ideologica, che
si fonda su quello che i burocrati chiamerebbero il combinato disposto di due
concetti. Il primo richiama elementi obiettivi: nel tempo T2 si manifesta qualcosa
che non appare nel tempo T1. Dal momento che è improbabile che vi siano
persone del tutto soddisfatte del funzionamento del sistema educativo, l’idea che
ci siano dei cambiamenti può suscitare attese positive, tanto più se a tali
cambiamenti si associano aspetti di contorno avvolti da aloni che ne accreditino la
rilevanza. L’altro concetto, indispensabile per far scattare la trappola ideologica, è
quello di miglioramento: chi non vorrebbe che l’educazione fosse migliore di
quella che è? Lo vorrebbe anche se, per avventura, presentasse già, al momento,
caratteristiche rispondenti a un disegno di sviluppo per i bambini e i ragazzi
capace di assicurare loro l’acquisizione di un profilo culturale che ne sostenga la
capacità di produrre un pensiero autonomo nel seguito della vita. Tuttavia,
tralasciando questa improbabile congettura, formulata solo per condurre
un’argomentazione per absurdum, è del tutto evidente che il concetto di
miglioramento è talmente saturo di ambiguità da non avere altra funzione, in
coppia con quello di cambiamento, che di richiamare un consenso facilitato dalla
contiguità delle proposte con dicerie di senso comune.
Posso ora tornare alla riflessione che avevo lasciato in sospeso, e cioè che è raro
che alle proposte di cambiamento si associ una previsione realistica delle
conseguenze che potrebbero derivarne. Altre volte ci si accontenta di osservare gli
effetti a breve termine, e non si considerano quali potranno essere nei tempi
lunghi. Mi viene in mente la convinzione con cui un mezzo secolo fa respingeva
la pratica dell’imparare a memoria. Non che non vi fossero argomenti per opporsi
a pratiche del tutto ripetitive, ma doveva, appunto, trattarsi di pratiche del tutto
ripetitive. Sarebbe stato più saggio cercare di distinguere quando certe pratiche
fossero solo forme di addestramento e quando fossero invece la premessa per lo
sviluppo di attività riflessive: e ciò valeva per le conoscenze linguistiche come per
quelle matematiche, per l’osservazione naturalistica come per lo studio della
storia, per consentire espressioni creative (nella recitazione, nelle arti figurative,
nella musica) come per sostenere percorsi di scoperta di qualche durata. Non
sarebbe male osservare quali delle difficoltà di apprendimento che incontrano i
bambini e i ragazzi che ora frequentano le scuole siano in qualche misura
collegabili ad una attenuazione della memoria. L’ipotesi che mi sento di
formulare è che un maggiore esercizio della memoria aumenti l’autonomia del
pensiero: parafrasando Sant’Agostino, sarebbero valorizzate le risorse disponibili
in interiori puero. Credo che molti insegnanti abbiano pensato qualcosa di simile,
ma non abbiano potuto contrastare efficacemente un’opinione comune che
considerava un male (siamo in piena ideologia) l’apprendimento a memoria.
Aloni altrettanto rivelatori d’ideologia hanno circondato cambiamenti
dell’organizzazione delle scuole e delle pratiche didattiche, considerati un bene
senza che in alcun modo ci si preoccupasse di dimostrarlo e, anzi, anche in
presenza di elementi che, se riguardati con attenzione, avrebbero spinto ad altre
conclusioni. Si è trattato, e si tratta, per lo più di aloni sapientemente diffusi e
rafforzati da soggetti il cui rapporto con l’educazione non si qualifica come
primario ma opportuno per conseguire altri intenti. Da decenni sento ripetere che
le attività didattiche delle scuole secondarie devono essere integrate da periodi di
tirocinio nelle aziende, perché l’apprendimento teorico (ma perché mai si deve
considerare necessariamente tale l’apprendimento scolastico?) possa affiancarsi a
esperienze qualificate in vista dell’inserimento dei giovani che fruiscono di
educazione sequenziale nelle attività produttive. Le aziende sarebbero di
conseguenza accreditate di una capacità educativa che non deve essere dimostrata,
e neanche posta in dubbio, come invece spesso accade per le scuole. Non starò qui
a ricordare che gli effetti di una simile immersione nelle acque del Giordano sono
ancora da osservare, né che il potere salvifico delle aziende non sembra andare
molto oltre la ripresa periodica di formule propiziatorie. Mi limito a ricordare
(ormai la memoria ha funzioni sovversive) che i ragazzi che oggi frequentano le
scuole secondarie, e che poi in maggioranza s’iscriveranno all’università,
potranno metter piede, se saranno molto fortunati, in un’azienda non prima di un
lustro dal momento in cui siano stati impegnati in esperienze di tirocinio. Dubito
che dopo un tale lasso di tempo (a maggior ragione se fosse più lungo di quello
indicato) vi sia ancora qualcosa che richiami l’esperienza compiuta, che si tratti
dell’organizzazione del lavoro o degli impianti produttivi, delle tipologie dei
prodotti o della loro commercializzazione e via discorrendo. Se ragioniamo in
termini di più lustri (ovvero, in termini più realistici), ci si dovrebbe incominciare
col chieder se le attività delle quali di è avuta esperienza tramite i tirocini esistano
ancora e se le più richieste non siano proprio le attività delle quali non si poteva
avere esperienza, per la buona ragione che ancora non esistevano. Allora, perché
si pone tanta enfasi sui periodi di esperienza in azienda?
È abbastanza strano che i maggiori sostenitori della necessità del tirocinio, che si
dovrebbero distinguere per la concretezza delle loro proposte, poi limitino le loro
riflessioni sulle esperienze di cui gli allievi hanno fruito a pochi aspetti affettivi.
Anche in questo caso le scuole avrebbero la possibilità di far valere il loro
giudizio tramite progetti di ricerca orientati in senso diacronico. Mi chiedo se sia
così diffusa tra gli insegnanti la convinzione degli effetti salvifici delle esperienze
nelle aziende. Riflessioni non diverse potrebbero essere sviluppate per altri
cambiamenti che si vorrebbero introdurre nel sistema educativo, a cominciare da
quelli che riguardano le dotazioni per l’insegnamento e l’apprendimento. Il fatto è
che per avere risposte non ideologiche dovrebbero essere accuratamente evitate
metodologie che lascino spazio all’apparire a favore di soluzioni che consentano
di rilevare ricadute non effimere. Sappiamo tutti che un’apparecchiatura digitale
ha una capacità di calcolo incomparabile con quella di un pallottoliere. Quel che
non è dimostrato è che un’apparecchiatura digitale sia più adatta di un
pallottoliere a promuovere un pensiero