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Le proposte dannose di Matteo Renzi sull’Università

Le proposte di Matteo Renzi sul Recovery Plan sono dannose e pretestuose: dannose per gli effetti che avrebbero, perché si inserirebbero su un percorso tipico del renzismo espresso con altre misure politiche come il Jobs Act; pretestuose perché l’unico obiettivo è estorcere posti tramite un rimpasto. In particolare lo sono quelle sull’università.

19/01/2021
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ROARS

francescomaria Tedesco

proposte di Matteo Renzi sul Recovery Plan sono dannose e pretestuose: dannose per gli effetti che avrebbero, perché si inserirebbero su un percorso tipico del renzismo espresso con altre misure politiche come il Jobs Act; pretestuose perché l’unico obiettivo è estorcere posti tramite un rimpasto. In particolare lo sono quelle sull’università.

Articolo pubblicato su Il Fatto Quotidiano.

Le proposte di Matteo Renzi sul Recovery Plan sono dannose e pretestuose: dannose per gli effetti che avrebbero, perché si inserirebbero su un percorso tipico del renzismo espresso con altre misure politiche durante il suo governo (penso in primo luogo al Jobs Act); pretestuose perché l’unico obiettivo è estorcere posti tramite un rimpasto. Si dirà che se esse verranno condivise vorrà dire che così sbagliate non erano. È più probabile che accada perché Renzi gli ha messo un cappio al collo, ma non posso escludere che una parte della maggioranza condivida proposte di impianto che genericamente chiameremo ‘neo-liberista’ o tutt’al più da Terza Via virante a destra e fuori tempo massimo.

Nello specifico, vorrei discutere delle proposte, espresse in forma interrogativa, a proposito dell’Università. Sono queste: “Vogliamo togliere l’Università dal diritto amministrativo? Vogliamo far scegliere il rettore al CdA e non farlo eleggere (il sapere non è democratico, ma meritocratico)? Vogliamo cambiare governance – reclutamento – valutazione?”.

Partiamo dalla prima: ‘togliere l’università dal diritto amministrativo’ è un’espressione grottesca, scritta in un italiano pessimo, ma vuol dire una cosa sola: che l’Università viene sottratta alle regole del pubblico impiego e diventa a tutti gli effetti un’impresa privata di diritto privato. È del resto un vecchio pallino di Renzi, che considera il Jobs Act una riforma azzoppata poiché non gli è riuscito di privatizzare il pubblico impiego, sottraendogli quelle garanzie che oggi fanno di quest’ultimo un settore garantito dalle regole che per il privato erano assicurate dall’art. 18. In questo modo, il pubblico impiego viene presentato da Renzi e dai suoi come una sacca di privilegio e non-licenziabilità. La retorica dei fannulloni, insomma.

Io penso invece esattamente l’opposto, e non perché il pubblico impiego non abbia i suoi bei problemi con dei veri fannulloni, ma perché tra voler valutare la pubblica amministrazione e voler fare di ogni erba un fascio per introdurre, con la scusa di punire i lavativi, un regime di diritto privato che ha ben altre finalità (trasformare la PA in un’impresa), c’è un’enorme differenza. Dunque penso esattamente l’opposto perché ritengo che per evitare disparità tra lavoratori non vadano aboliti dei diritti, ma vadano estesi a chi non ne gode: dunque le garanzie per il pubblico impiego andrebbero non cancellate, ma estese di nuovo a tutti i lavoratori. Ma si sa, per Renzi il lavoro a tempo indeterminato e la protezione dal licenziamento sono relitti novecenteschi.

Sulla stessa linea è l’idea che sia il CdA a dover nominare il rettore: l’università non sarebbe democratica ma meritocratica. Ora, se è vero che l’autonomia degli atenei ha prodotto una caterva di problemi anche in termini di reclutamento, è altrettanto vero che questi problemi non verrebbero affatto risolti facendo delle università delle aziende con un manager. Fu la Gelmini a riformare il ruolo del CdA, peraltro introducendo in esso i membri esterni all’università, preludio a questa idea renziana. Un’idea tutta centrata sul presupposto che l’università non sia luogo di produzione di saperi e cittadinanza, ma di servizi alle imprese. È in questo senso che Renzi prende un’idea buona, il sistema tedesco degli istituti Fraunhofer, e la declina nel solito modo: ricerca applicata al servizio delle imprese. Ma cosa ne è di quella ricerca che non può e non deve fornire ‘servizi’ per statuto epistemologico e per ragioni ‘politiche’, poiché il pensiero critico non è un’agenzia di consulenza? Il sistema tedesco ha sì i Fraunhofer, ma ha anche la rete degli istituti della ricerca di base, i Max Planck, finanziati con 1,8 miliardi di euro all’anno. Non è significativo, dal punto di vista ideologico, che Renzi nomini i Fraunhofer e non i Planck?

Infine, cambiare il metodo di reclutamento sarebbe sacrosanto, ma per fare cosa? Per inserire ulteriori elementi ‘privatistici’? Per legare la ricerca ai quattrini al cui reperimento il ricercatore deve venire sguinzagliato? Magari continuando con il sotto-finanziamento pubblico dell’università? E come dovrebbe essere valutata poi la ricerca: nei termini dei soldi che porta nella casse?

In ultima analisi, il renzismo ha una precisa idea della società, del lavoro, del mercato, dell’università. Un’idea che è il frutto di convinzioni ideologiche vecchie. Avremmo bisogno d’altro, ma si ha l’impressione che le cose non andranno in questa direzione.