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«Le reti idriche servono a rilanciare il ruolo del pubblico»

Intervista a Stefano Rodotà. Il giurista parla sul significato della consultazione «L’idea di pubblico come spreco e corruzione fa prevalere il privato e quindi gli interessi di pochi»

26/03/2011
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l'Unità

Alessandro Zardetto

 

INTERVISTA TRATTA DAL LIBRO «H2ORO - LE MANI DI POCHI SU UN BENE DI TUTTI»

Un milione e 400mila firme, un risultato epocale per una campagna referendaria. Professor Rodotà, sia spettava una risposta del genere? «Devo essere sincero?» Certo! «No. Ero sicuro che avremmo raggiunto le 500mila firme necessarie per proporre il referendum, questo sì. Ma una risposta così massiccia non la immaginavo. Intanto perché è una delle prime occasioni in cui nella macchina organizzativa non ci sono dei “professionisti” del referendum, penso soprattutto ai Radicali. Protagonista, stavolta, è un mondo che non si era mai cimentato nella raccolta delle firme. Inoltre, e non è un dettaglio, è mancato il supporto del più importante partito della Sinistra, il Pd» Immagino il suo impegno visto che è tra gli estensori di questo referendum… «Veda, non mi è stata espressamente richiesta una consulenza tecnica, la mia è stata una scelta di coscienza. Ho cominciato a studiare i temi della proprietà alla fine degli anni Cinquanta e me ne sono occupato in vario modo e in varie sedi. Quando è venuta fuori la questione dell’acqua mi sono trovato, diciamo, coinvolto “naturalmente”.Non dimentichiamoci che questo è un tema planetario, che va oltre le frontiere italiane. Quello che succede da noi è un aspetto di una più vasta e complessa discussione » Lei accennava al fatto di aver seguito tutte le campagne referendarie del passato. Il clima che si respira oggi è lo stesso delle consultazioni popolari che hanno cambiato la storia del Paese? Penso soprattutto al divorzio o all’aborto. «Direi di no. Il clima è molto diverso e per infinite ragioni. Lei mi ha chiesto del divorzio. Un referendum come quello fu un modo per liberarsi da una costrizione; è stato un momento in cui tutti i cittadini hanno potuto votare secondo coscienza e non secondo appartenenza poiché si votava su qualcosa che riguardava l’esperienza diretta delle persone, un dato sociale che tutti toccavano con mano. Lo stesso valeva per l’aborto, dove l’impegno del mondo femminile, compatto e determinato a rivendicare i propri diritti, è stato fondamentale per la vittoria. Nel caso dell’acqua l’esperienza personale non è la stessa per tutti. Solo chi vive in alcuni comuni puòveramente capire i mali della gestione privata e per questo la campagna dovrà essere il meno astratta possibile. Bisogna catturare l’attenzione delle persone attraverso carte, numeri, bollette che al tempo del divorzio o dell’aborto non servivano. Non si deve perciò fare ideologia: se a Ronchi ci contrapponiamo solo con le parole si rischia di non raccogliere il consenso dell’opinione pubblica. Basta che egli o il Governo dicano che l’acqua rimane pubblica e che solo le reti vengono in parte privatizzate, il quorum non si raggiunge». Professore,masarà facile convincere gli italiani che una gestione pubblica sia meglio di una privata? «Non c’è dubbio che in diversi casi la gestione pubblica italiana abbia prodotto risultati pessimi. È vero anche che esiste una percezione diffusa di un “pubblico” equivalente a spreco, carrozzone, clientela e corruzione. Se però ci arrendiamo all’idea che nonsi possa invertire la rotta, il privato avrà sempre la meglio. E con lui, gli interessi di pochi. Il privato vince non perché è più efficiente ma perché è preferibile allo stereotipo del pubblico che dobbiamo, invece, respingere. Per l’acqua bisogna proporre un modello di gestione che nontorni a vecchi sistemi pubblici ma introduca il significato di bene comune. Pensiamo a Parigi, dove il privato ha fallito, oggi nella gestione pubblica la società civile ha un ruolo fondamentale sul controllo del servizio». La Francia però ha una cultura civica differente dalla nostra… «Guardi, non è un problema culturale, la gestione delle reti idriche è l’esempio più efficace per capire quello che sto dicendo. Dove è sopraggiunto il privato, con i suoi interessi, abbiamo numerosi casi di aumenti spropositati delle tariffe. È sotto gli occhi di tutti. I numeri parlano meglio di chiunque altro. Perciò, come le dicevo prima, la campagna referendaria dovrà insistere su questo: indicare dettagliatamente, analiticamente quali e quanti siano i casi in cui la gestione privata sia stata disfunzionale e socialmente regressiva, individuando, contemporaneamente, i modelli alternativi, che sono il vero elemento di novità per il nostro Paese. Le dico di più. Io sono d’accordo con il collega Luca Nivarra (altro estensore del referendum, nda) quando sostiene che sostanzialmente in Italia il concetto di “pubblico” non esiste. Tutti si sono sempre sentiti proprietari del pubblico. I partiti, ad esempio, che non sono organi dello Stato, per il diritto del nostro Paese sono soggetti privati che di fatto si spartiscono da decenni la sfera pubblica. Così non può andare, bisogna prima uscire dalla logica del “pubblico” per entrare il quella del “comune”. In una battuta direi che è il momento di ripubblicizzare il pubblico!».


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