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Liberazione: A proposito dell’istituto arabo per bambini egiziani di via Ventura a Milano

Il ruolo essenziale della scuola pubblica per non creare “ghetti dell’istruzione”

18/10/2006
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Liberazione

Dario Danti e Niccolò Pecorini
Il caso dell’istituto arabo per bambini egiziani di via Ventura a Milano ci pone molte domande sul futuro della scuola pubblica: è un caso che va affrontato senza scorciatoie e focalizzando almeno due questioni. Ha ben scritto Paolo Branca su Domenica del Sole240re circa il fatto che, nel quadro di accordi col paese d’origine e nel rispetto normativo, non è in discussione una singola autorizzazione. Una scuola straniera si giustifica per studenti che risiedano soltanto pochi anni in un altro paese e, per questa via, non perdono anni di studio. Di contro i dati parlano di un 90% di figli di migranti arabi che rimangono in Italia per sempre. Pretendere, argomenta Branca, di far seguire «l’intero programma del Paese d’origine, a scapito di una decente acquisizione della lingua e della cultura italiana, è prima di tutto un assurdo pedagogico in quanto considera il bambino un recipiente vuoto nel quale si possono versare indiscriminatamente tutte le nozioni che si vogliono». A supporto di questa tesi viene chiamato in causa lo studioso Tariq Ramadan che, nel suo “L’Islam in Occidente”, mette l’accento sia sul fatto che queste scuole accolgono soltanto una piccola percentuale di bambini, sia che non rappresentano la soluzione al problema dell’integrazione poiché la creazione di tali istituti ha come motivazione, nella stragrande maggioranza dei casi, la protezione dei bambini e delle bambine «dalla cattiva influenza della società», ovvero proteggerli da un «ambiente malsano», farli vivere «tra musulmani» in spazi chiusi «artificialmente islamici», quasi totalmente distaccati dalla società circostante. A questa critica relativa al tipo di integrazione e alla caratura pedagogica nella scuola, potremmo affiancare un’altra questione: l’istituzione “scuola privata”. Non si tratta del tema del finanziamento statale e del tanto vituperato articolo 33 della Costituzione - il «senza oneri per lo Stato» - bensì del modello di scuola pubblica a cui vogliamo guardare. Viene alla mente la definizione di Mario Alighiero Manacorda: «ghetti dell’istruzione», ovverosia scuole confessionali - siano esse musulmane o cattoliche -, per ricchi o per poveri, di desta o di sinistra. L’obbligo scolastico, la formazione superiore non possono essere assolti a prescindere dalla scuola pubblica. Crediamo che questo debba essere l’orizzonte culturale, prima ancora che politico, della sinistra e anche del Prc. Certo, una scuola pubblica che costruisca i nessi e renda la programmazione didattica, le insegnanti e gli insegnanti qualitativamente e professionalmente adeguati al ruolo educativo di una società non soltanto abitata dalla categoria astratta degli “italiani” è la sfida culturale che abbiamo di fronte. Così com’è la scuola italiana, dobbiamo dircelo, non è adeguata.
In questo quadro, diventa centrale anche la questione della laicità. Non si tratta di assecondare una vulgata poco convincente secondo cui “laico non è laicismo”, tutt’altro. Ridefinire il concetto di laicità significa dover fare i conti con i simboli, con le tradizioni culturali, differenti e confliggenti al tempo stesso. La presenza dell’altro permette la rimessa in discussione della personale identità. Qui non siamo di certo a proporre classi separate permanenti dentro la scuola pubblica; il nodo, semmai, è ricercare le forme della relazione dentro uno spazio pubblico individuato. » bello, ad esempio, che i programmi dell’insegnamento dell’ora di religione nella scuola pubblica prevedano lo studio storico delle religioni, ma se l’inquadramento generale è dato dai principi del documento “Nostra Aetate” del Concilio Vaticano II la questione del “ghetto” si ripropone anche dentro lo spazio pubblico. Per questo abbiamo sempre rifiutato questa ora d’insegnamento “religioso”. La ridefinizione della laicità non è la ghettizzazione esterna o interna alla scuola pubblica, che finisce per essere una giustapposizione separatista; idem potremmo dire sui simboli religiosi. Anche la questione del crocefisso non può essere liquidata promuovendo l’aggiunta del simbolo: la croce con accanto l’effige di Maometto, piuttosto che del Dalai Lama e così via a sommare. La vertigine della parete bianca, spoglia di simboli, potrebbe mettere in luce, o accrescere il valore, di un altro spazio simbolico: quello della lavagna. Certo una tabula rasa, direbbe il filosofo, ma proprio per questo spazio pubblico, spazio di frontiera culturale, di condivisione. La lavagna può contenere tutto quello che ancora non vi abbiamo scritto o raffigurato, che è, al fine, il frutto quotidiano della cooperazione educativa fra insegnanti e studenti nella scuola pubblica.