Iscriviti alla FLC CGIL

Home » Rassegna stampa » Rassegna stampa nazionale » Liberazione: La busta paga italiana:sotto i 1.300 euro al mese

Liberazione: La busta paga italiana:sotto i 1.300 euro al mese

Una ricerca della Cgil: il 70% dei lavoratori dipendenti non percepisce più di questa cifra. Tra loro, il 35% vive con meno di mille euro

06/09/2006
Decrease text size Increase text size
Liberazione

Andrea Milluzzi

I salari? Bassi, molto bassi: il 68, 6% dei lavoratori dipendenti guadagna al massimo 1300 euro netti al mese, quasi la metà di loro meno di 1000 euro, e solo il 16% supera questa soglia. La sicurezza di avere comunque un’occupazione? Scarsa, se è vero che un terzo considera “poco sicuro” il proprio impiego, il 12, 4% “per niente sicuro”, quasi il 40% “abbastanza sicuro” e che solo il 27% confida sulla stabilità. Voglia di scommettere sul futuro? Praticamente nulla, visto che quasi il 60% è sicuro che la propria condizione “rimarrà uguale o peggiorerà rispetto a quella dei propri genitori”. Sono solo alcuni dati generali della ricerca dell’Ires Cgil “L’Italia del lavoro oggi. Condizioni e aspettative dei lavoratori”, realizzata su un campione di 6.015 lavoratori dipendenti e lavoratori con contratti atipici, i cui primi risultati sono stati presentati ieri a Roma. Risultati che offrono un quadro a tinte fosche e che riportano alla mente, in alcuni casi peggiorandola, un’analoga ricerca commissionata dai Ds nel 1980.

Un mondo a strati
La ricerca evidenzia come il mondo del lavoro sia attraversato da stratificazioni sempre più lontane fra di loro, sia per dimensioni che per tematiche. Prima fra tutte la precarietà, arrivata ormai al 28, 2% nel settore privato e al 18% nel pubblico, con picchi del 48, 2% nel settore del commercio e del 60, 1% fra gli specialisti a elevata professionalità. Una precarietà che va a colpire soprattutto le nuove generazioni: il 24% dei lavoratori fra i 25 e i 34 anni prima di svolgere il lavoro attuale ne ha cambiati dai 3 a 5 e quasi il 10% ne ha cambiati più di cinque. Percentuali non molto più basse nella fascia d’età che va dai 35 ai 44 anni. Rapporti squilibrati anche per quanto riguarda le competenze e la formazione professionale: il 37% dei lavoratori ha un lavoro di basso profilo senza particolari competenze che invece sono riconosciute al 22% degli occupati. Ma il dato più preoccupante, perché come scrivono i ricercatori dell’Ires «interessa i gruppi professionali che più contribuiscono alla produttività e alla crescita qualitativa del sistema Paese» è che il 39% degli intervistati non vede riconosciuta la propria professionalità. Poi le - purtroppo - immancabili differenze di genere che vedono le donne penalizzate rispetto agli uomini in tutte le statistiche. Per esempio se il dato medio dei contratti part-time è del 14, 2%, per le donne sale al 24, 9% mentre per gli uomini scende al 7, 3% e in più la flessibilità dell’orario per loro è decisa univocamente dal datore di lavoro, mentre per gli uomini è il risultato della contrattazione collettiva. Ancora: le donne guadagnano tendenzialmente meno degli uomini: al di sotto dei 1.000 euro ci sono il 48, 9% delle donne, sopra i 1.500 l’8, 5% quando per gli uomini questi dati sono del 26, 8% e del 20, 3%. I salari però si meritano un capitoletto a parte.

Salari e orari
Andando a studiare le buste paga, l’Ires Cgil ha scovato quella che poi il segretario generale Guglielmo Epifani definirà «la grande questione irrisolta». Basta guardare le cifre: la media di un lavoratore dipendente con un contratto standard è di 1.010 euro, ma se lavora in una piccola impresa allora ne guadagna 879, se sta al Sud 950; se invece il contratto è atipico lo stipendio si sgonfia fino a 800 euro se poi il lavoratore è un giovane fra i 15 e i 24 anni gli euro sono 788, meglio se è un lavoratore extracomunitario in regola così ne guadagna 881. La questione salariale si evidenzia anche fra un’occupazione e l’altra: a guadagnare di meno sono gli operai e gli impiegati nel commercio, nel turismo e nei trasporti. Ma anche fra i lavoratori ad elevata professionalità c’è un buon 30% che non arriva a incassare 1.000 euro al mese. Tutto questo a fronte di un orario di lavoro molto alto e, ancora una volta, non uniforme: oltre il 60% dei dipendenti sta al lavoro per oltre 40 ore alla settimana e il 22% di loro supera le 45 ore. Nel settore privato dell’economia il 73% degli intervistati è occupato dalle 40 ore in su, nel pubblico la maggioranza lavora dalle 24 alle 36 ore. Gli operai lavorano dalle 36 alle 40 ore, gli insegnanti e gli occupati nel commercio dalle 18 alle 24 ore. Ad essere penalizzati di più sono sempre gli atipici presenti in massa nelle fasce d’orario più basse.

Vecchi e giovani
Il 57, 7% dei lavoratori dichiara di riuscire a stento, «se non per niente», a mantenere la famiglia e questa quota si alza fino al 70% fra i lavoratori atipici. Se questo è il presente, il domani non si presenta con un bel biglietto da visita: alla domanda “cosa vorresti per il futuro? ” il 40% ovviamente risponde “un salario più alto”, il 30% “la sicurezza” e il 24% “maggior gratificazione professionale”. La scala dei desideri cambia a seconda dell’età: i giovani, provati dalla precarietà, vorrebbero maggior sicurezza, gli adulti hanno il timore di ritrovarsi senza pensione. E se per questi ultimi la voglia di cambiare lavoro è assai scarsa, il 43% degli intervistati giudica «positivamente» la flessibilità «per le opportunità che può offrire se accompagnata da diritti e tutele», mentre il 41% la liquida come «fonte di ansia e come limite alla progettualità della vita». Ma tanto basta al ministro del lavoro Cesare Damiano per dire che «la flessibilità è buona se regolata e tutelata, ma deve essere di transito», argomento che lo porta a lodare l’iniziativa del governo volta a invertire il rapporto di spesa per le aziende per i contratti standard e quelli atipici che adesso pende nettamente a favore dei primi «e l’obiettivo è invece ritornare all’80% di assunzioni standard». Idea che non piace a Andrea Pininfarina «perché così tanti nuocerebbero alla competitività del Paese». Ma è da Epifani che parte l’attacco più duro: «C’è un’enorme questione salariale, una precarietà disarmante, l’ingiustizia delle stock option è ancora là e nonostante ci sia un po’ di ripresa non si parla altro che di tagli. Io dico, stiamo attenti, vediamo quello che c’è e iniziamo a dare risposte a queste urgenze