Iscriviti alla FLC CGIL

Home » Rassegna stampa » Rassegna stampa nazionale » Liberazione: «Ma quale politica? Questa riforma non piace perché contro la scuola»

Liberazione: «Ma quale politica? Questa riforma non piace perché contro la scuola»

Le voci degli insegnanti accusati di fare campagna elettorale in cattedra

16/09/2009
Decrease text size Increase text size
Liberazione

Laura Eduati

I professori ribelli vadano a fare politica fuori delle scuole.
Esasperata dalla mobilitazione capillare degli insegnanti precari che inscenano proteste fantasiose o estreme in tutta la penisola, Mariastella Gelmini lancia un monito preciso: «Ci sono alcuni dirigenti scolastici e insegnanti, una minoranza, che disattendono l'attuazione delle riforme». Ebbene, «così significa far politica a scuola e questo non è corretto. Se un insegnante vuol far politica deve uscire dalla scuola e farsi eleggere».
In realtà la ministra fa riferimento soprattutto ai maestri che in nome della autonomia scolastica decidono di non applicare la riforma del maestro unico. E sempre pensando alle elementari, promette che presto metterà un tetto del 30% di alunni stranieri per classe, e questo per evitare situazioni come quella della romana Pisacane dove il 97% dei bambini non è italiano.
Partiamo dagli insegnanti accusati di fare politica. «Gelmini non è commentabile. Qualsiasi lavoro educativo rientra nella politica nel senso più nobile del termine. Purtroppo dovrebbe capire che quando una riforma viene fatta contro i lavoratori della scuola, non andrà mai in porto», commenta Tonia Guerra, combattiva maestra alla "Oreste Del Prete" di Bari dove hanno spedito al mittente, appunto, il maestro unico e la figura del coordinatore scegliendo la collegialità. Tutti i maestri sono uguali, insomma. E non importa se il provveditore del capoluogo pugliese, assediato dagli insegnanti precari, continua a ripetere: «Voi la riforma non l'avete capita». Perché nella scuola di Guerra la stragrande maggioranza dei genitori ha scelto il tempo pieno, possibile soltanto se rimangono a insegnare i supplenti che la ministra vorrebbe cacciare.
Ci sono insegnanti che pagano cara l'insubordinazione. Come Marzia Mascagni, maestra alla "Longhena" di Bologna che decise, insieme con le colleghe, di affibbiare un dieci in tutte le materie nelle pagelline di metà anno per protestare contro il voto numerico. Risultato: dall'ufficio scolastico regionale è arrivata la censura per lei e due maestre che avevano espresso alla stampa locale e nazionale pesanti critiche alla riforma Gelmini. «Dicono che sono stata sleale nei confronti del mio datore di lavoro, ossia la pubblica amministrazione, ma nessuno mi chiuderà la bocca perché il diritto di critica è tutelato dalla Costituzione», continua Mascagni. Sulle quote di stranieri in aula, poi, la maestra bolognese ha parole durissime: «Ma quali quote, i bambini stranieri vanno aiutati con le risorse. Gelmini pensi piuttosto a diminuire il numero di bambini per classe».
«Che cosa significa straniero?», chiede Gennaro Loffredo, maestro a Cinecittà (Roma) e animatore del presidio permanente al ministero della Pubblica Istruzione. La distinzione è d'obbligo: un bambino nato in Italia da genitori stranieri è già alfabetizzato e non può essere paragonato ad un bambino migrante appena arrivato. E comunque: «I problemi dell'integrazione dei bambini stranieri andava affrontato meglio con la compresenza, oggi abolita dal ministero. Ora facciamo i salti mortali per garantire corsi di alfabetizzazione e progetti mirati utilizzando i magri fondi di istituto». E anche sulla politica, dice Loffredo, vanno distinti i piani: i docenti non fanno campagna elettorale in classe, la politica non va confusa col partitismo. «In questo senso», conclude, «la scuola ormai è l'unico presidio democratico della società dove viene formata la polis ».
E' proprio questo che viene rifiutato dagli insegnanti: l'accusa di trasformare la scuola in partito anti-governativo, o meglio, anti-berlusconiano. «Politica? Assurdo. Noi stiamo rivendicando il nostro diritto al lavoro», scandisce senza esitazione Daniela Basile, docente di francese licenziata per effetto dei tagli e leader dei precari che salirono sul tetto degli uffici scolastici provinciali di Benevento: «Avremmo manifestato anche contro un governo di centrosinistra. Tutti i politici del presente e del passato sono responsabili di questa situazione, dovrebbero sedersi attorno ad un tavolo e trovare una soluzione».
Oggi la protesta dei precari del Sannio continua, in forme inedite: partirà presto un laboratorio pomeridiano gestito da 45 insegnanti rimasti senza cattedra che faranno corsi a ragazzi disabili, gratuitamente. E poi le ronde della sicurezza declinate nella scuola: gruppi di quattro-cinque disoccupati gireranno negli istituti del beneventano per denunciare muri pericolanti e mancanza di igiene. «Ma la protesta vera non si ferma», promette Basile, di questi tempi pendolare a Roma per animare il presidio al ministero in attesa della mobilitazione nazionale del 3 ottobre.
Proprio nella capitale fa scalpore il caso della scuola elementare del quartiere di Torpignattara, "Carlo Pisacane", dove soltanto sei bambini hanno genitori italiani. Intervistati dall'Ansa, le famiglie si dichiarano contente di mandare i figli in una scuola multietnica ma i genitori stranieri pensano che le quote siano una buona idea perché eviterebbero ghettizzazioni.
«Gelmini si accorge ora della problematicità di alcuni quartieri?», domanda polemicamente Paola De Meo, insegnante alla scuola elementare "Iqbal Masik" di Roma, tra le capofila della ribellione alla riforma: «Con gli alunni che non parlano ancora italiano siamo lasciati soli, non ci sono fondi per i mediatori culturali. Per fortuna i bambini sono svegli e imparano presto. Altrimenti facciamo ripetere la classe per consolidare le basi della lingua e delle altre materie. Così non avranno problemi in futuro».