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Ma è proprio vero che le università italiane fanno schifo, e Catania di più?

Si potrebbe in sostanza fare per le università italiane la stessa valutazione che nel 1999 ha portato l’Onu a classificare il sistema sanitario italiano come il secondo migliore al mondo

23/08/2014
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ROARS

Si potrebbe in sostanza fare per le università italiane la stessa valutazione che nel 1999 ha portato l’Onu a classificare il sistema sanitario italiano come il secondo migliore al mondo, risultato che desta stupore quando si abbia davanti agli occhi il degrado di certi reparti ospedalieri, ma che diventa plausibile se si tiene conto della sua copertura media sulla popolazione e non solo dei centri di eccellenza scientifica. Allo stesso modo il nostro sistema universitario è complessivamente di buon livello, nel senso che esso assicura una qualità media diffusa sul territorio con pochi picchi (che si concentrano in specifiche discipline), ma anche senza troppe deficienze gravi. Ed inoltre il numero di università su tale medio livello è considerevole, visto che ci si posiziona come il quarto o quinto paese al mondo per numero di università che rientrano tra le prime 500, a seconda delle classifiche prese in esame.

È ormai diventato una sorta di automortificazione nazionale constatare – spesso con un certo compiacimento – come le università italiane sfigurino nelle diverse classifiche internazionali che ne dovrebbero misurare la qualità. L’ultima appena uscita l’Academic Ranking of World Universities (ARWU), compilata dalla Jiao Tong University, ha fatto strillare i giornali italiani che hanno notato come tra le prime 150 non ce ne sia nemmeno una italiana. Una ulteriore dimostrazione di quanto le nostre università siano scadenti, affette da nepotismo, burocratizzate e quindi meritevoli degli interventi di penalizzazione che negli ultimi decenni hanno subito, in termini di finanziamenti e di ricambio del personale? A che pro infatti gettare denaro per finanziare un sistema che fa acqua da tutte le parti?, si sente sostenere da molti, politici, intellettuali e gente comune. E i rettori, affetti da una nuova sindrome – il rankitismo, ovvero la “febbre da ranking” a sbracciarsi ed esaltare le performance dei propri atenei anche per poche posizioni scalate. Con la conseguenza – nella fretta - di alcune umoristiche défaillance quando si spara a piena pagina che Bologna è la migliore delle italiane, senza accorgersi che da un certo punto in poi la classifica non dà più le posizioni individuali, ma per fasce, sicché Bologna è a pari merito con altre cinque università che si posizionano tra il 151° e il 200° posto e sta in cima solo per una questione alfabetica (come del resto nel rapporto ARWU è esplicitamente dichiarato). E così il prorettore di Bologna, Dario Braga, ha dovuto pubblicamente “arrendersi” su Facebook, a seguito di un articolo di Giuseppe De Nicolao su Roars. Chapeau!

Mi arrendo

Ma le cose non sono così semplici come una facile pubblicistica vorrebbe farle apparire. Numerose sono infatti le critiche e le perplessità che nella letteratura scientifica hanno suscitato tali classifiche (e che sono state documentate negli articoli scritti in merito sul sito telematico di ROARS, molto attento su tali questioni), al punto da sostenere che esse sono più dei modi per vendere una certa “merce” a particolari “clienti” (così oggi si chiamano gli studenti) che delle indicazioni oggettive. Ma v’è anche da vedere quali siano i criteri che vengono utilizzati per stilarle, che certo non favoriscono le università italiane: il criterio dei premi Nobel o delle medaglie Field assegnati al personale docente o il giudizio dato dagli “alumni” (cioè gli ex studenti) sulla qualità dell’educazione o gli articoli pubblicati su sole due riviste (“Nature” e “Science”) di lingua inglese ecc., certo non possono favorire le università che non appartengono ad un certo mondo culturale, cioè quello anglosassone.

Ma v’è di più. Innanzi tutto di classifiche di questo tipo ve ne sono parecchie, per cui bisognerebbe andare a dare uno sguardo complessivo a quello che dicono. E quando si faccia ciò, e in particolare si vadano a valutare quelle che privilegiano la qualità della ricerca scientifica, si vede che le università italiane non vanno poi così male. Ad es. in quello della National Taiwan University (NTU Ranking) v’è una università tra le prime 100 (Milano statale), 5 tra le prime 200 e così via, per un totale di ben 26 università tra le prime 500. E tra queste ci sta anche Catania, che occupa il 389° posto. Aggiungiamo che nel sopra menzionato ARWU vi sono 21 università tra le prime 500, occupando così l’Italia il quinto posto al mondo per numero di università in classifica (a pari merito con Francia e Canada), dopo gli USA, la Cina, la Germania e il Regno Unito. In sostanza, sono un quarto delle università italiane (pubbliche e private, anche mettendo tra queste ultime le più improbabili ed escludendo solo le telematiche). E se consideriamo le università statali, anche in considerazione del fatto che le private in queste classifiche fanno una ben magra figura (in quasi tutte le classifiche è presente solo la Cattolica di Milano), siamo al 34,5%. Il che è una percentuale molto elevata se si considera che le prime 500 università al mondo (ce ne sono circa 17.000) sono la crema delle università e se si tiene conto del fatto che invece le università di ricerca USA (pubbliche e private) tra le prime 500 sono il 32,6% e del fatto che la spesa per il sistema universitario italiano rapportata al PIL è la penultima in Europa. Insomma è come dire che buona parte delle università italiane si colloca nel top del 3% mondiale.

Piazzamenti università italiane

Si potrebbe in sostanza fare – come abbiamo già altrove detto – per le università italiane la stessa valutazione che nel 1999 ha portato l’Onu a classificare il sistema sanitario italiano come il secondo migliore al mondo, risultato che desta stupore quando si abbia davanti agli occhi il degrado di certi reparti ospedalieri, ma che diventa plausibile se si tiene conto della sua copertura media sulla popolazione e non solo dei centri di eccellenza scientifica. Allo stesso modo il nostro sistema universitario è complessivamente di buon livello, nel senso che esso assicura una qualità media diffusa sul territorio con pochi picchi (che si concentrano in specifiche discipline), ma anche senza troppe deficienze gravi. Ed inoltre il numero di università su tale medio livello è considerevole, visto che ci si posiziona come il quarto o quinto paese al mondo per numero di università che rientrano tra le prime 500, a seconda delle classifiche prese in esame.
Ma Catania? Certo non è presente nella classifica ARWU, se non per la fisica. Ma quale è la sua performance generale nella varie classifiche esistenti? Ebbene, considerando gli undici ranking più importanti, vediamo che Catania si piazza in “posizione utile” (cioè in generale tra le prime 500 o addirittura 400) in ben 4 ranking. E le università italiane ad avere piazzamenti in almeno due ranking non sono mica molte: solo 31. Dunque, anche in questo caso vale quanto detto prima sulla performance generale delle università.

ConfrontoQuando si prenda come punto di riferimento le irraggiungibili università americane che si piazzano al top delle varie classifiche, bisogna osservare che è stato calcolato da Ellen Hazelkorn che per entrare tra le top 100 un ateneo deve spendere annualmente qualcosa come 1,5 miliardi di Euro (vedi De Nicolao). Quante sono le università italiane che possono permettersi simili spese? Non certo Catania, le cui entrate totali per il 2011 sono state all’incirca di 344 milioni di euro.

Harvard vs Italia - Spese Operative vs FFO 2012

Figura tratta da De Nicolao, “Dario Braga (Bologna): «è consolante essere la prima italiana» … ma è vero?”, in ROARS, 19 agosto 2014.

E si sono mai andati a vedere i finanziamenti che le università americane ricevono per ricerca scientifica e strutture, rispetto a quello che invece ottengono le università italiane? Vogliamo fare qui solo un esempio, prendendo come pietra di paragone l’università di Harvard, che in tutti i ranking occupa quasi sempre il primo posto: essa ha ricevuto per il 2009 in finanziamenti per ricerca (tra fondi federali e non federali, costi diretti e indiretti) la somma di circa 705 milioni di dollari; il Ministero per l’Istruzione, Università e Ricerca (MIUR) ha stanziato per finanziare l’intera ricerca universitaria italiana per il 2009 (in tutti i campi disciplinari) la somma di 136.754.000 di dollari (fondi Prin): il MIUR per finanziare la ricerca universitaria stanzia mediamente il 19,3% di quello che riceve la sola Harvard; e Catania ha avuto nel 2010 la somma di solo 4.243.261 dollari, cioè lo 0,6% di quanto avuto da Harvard, pur avendo un numero di docenti superiore e tre volte più studenti di quelli immatricolati nella prestigiosa università americana.
Se invece consideriamo non solo la spesa del MIUR, ma l’intera spesa per ricerca scientifica del sistema universitario italiano (qualunque ne sia la fonte di finanziamento, privata o pubblica), apprendiamo da dati ministeriali che nel 2006 questa ammontava a 5.327,4 milioni di dollari. In considerazione del fatto che di certo essa non è cresciuta in maniera consistente ad oggi (così come è dimostrato dai suoi valori percentuali sul complesso del Pil e in relazione ai tagli avvenuti negli ultimi anni, per cui il Fondo di Finanziamento Ordinario è calato del 19,3% in termini reali dal 2009 al 2013), constateremo che la spesa per tutta la ricerca scientifica universitaria italiana è solo circa 8 volte superiore a quella della sola Harvard. Con questi numeri la domanda che di solito si fa (perché i ricercatori italiani producono così poco rispetto ai colleghi americani?) andrebbe capovolta: come mai i ricercatori americani distanziano di così poco quelli italiani, in considerazione dei mezzi strumentali, delle risorse economiche e delle strutture di cui beneficiano?

Insomma, prima di disprezzare l’università italiana (che ha molti mali, ma non certo quello della qualità della ricerca scientifica, se è vero che gli indicatori specifici, ad es. lo SCIMAGO, ci pongono al 7° posto al mondo), è bene rendersi conto della reale situazione complessiva, specie in un periodo (almeno l’ultimo decennio) che ha visto calare progressivamente il finanziamento per la ricerca e per l’università, tanto da essere agli ultimi posti tra i paesi dell’UE. Una situazione che preoccupa sempre di più e che ci allontana progressivamente dal novero delle nazioni ad alto tasso tecnologico e scientifico, per non parlare del famoso 3% in ricerca scientifica sul PIL, stabilito dal Trattato di Lisbona del 1999, dalle nostre autorità sottoscritto e bellamente ignorato, sicché siamo ancora a poco più dell’1%.

Pubblicato su SiciliaJournal il 22 agosto 2014