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"Ma per applicarla servono anni e soldi" Docenti scettici sulla "rivoluzione del merito"

I regolamenti attuativi sono oltre cinquanta. Il rischio di un aumento delle rette

24/12/2010
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la Repubblica

Franco Vanni

Fatta la riforma, nelle università si comincia ad aspettare. Per quanto non si sa. «Ci vogliono sei mesi per mettere insieme le commissioni che dovranno riscrivere gli statuti di ogni ateneo - mette in guardia Massimo Mario Augello, rettore a Pisa - e prima di un anno non si arriverà a una bozza da votare nei senati accademici. E sempre che il governo intanto abbia fatto i regolamenti attuativi. Capisco che il linguaggio è burocratico e poco esaltante, ma è così che funziona una riforma». E quando arriverà l´annunciata "rivoluzione del merito"? E la "lotta a parentopoli"? «Sono parole - continua Augello - ogni legge ha il suo corso. E questo sembra che sarà lunghissimo».
I ricercatori, che hanno urlato per mesi la loro rabbia per «la morte della ricerca» nelle piazze e sui tetti, dopo l´approvazione della legge sanno che la lotta non è che all´inizio. «La figura del ricercatore disegnata dal testo è disastrosa - dice Piero Graglia, della Rete 29 Aprile - ma per anni in realtà non cambierà nulla. Fino al 2013, grazie a una deroga già prevista, le università potranno assumere ricercatori a tempo indeterminato come oggi, non con la nuova formula dei 3 anni più 3. E i primi ricercatori "a tempo determinato" dovrebbero scadere nel 2017. Fino ad allora la legge è a impatto zero».
I ricercatori calcolano che l´approvazione dei regolamenti attuativi (oltre cinquanta, più di quanti ne siano stati fatti in materia di università nell´intera storia della Repubblica) richiederebbe a un governo efficiente due anni. «Il paradosso è che le università ancora non sanno dal ministero dell´Economia quanti soldi ci saranno per chiudere il bilancio 2010», dice Marcello Fontanesi, rettore dell´università di Milano Bicocca. E il "commissariamento per le università con i conti in rosso", fiore all´occhiello della Gelmini, come si applica se non si sa quanti soldi ci sono? Di certo c´è invece quello che la legge non prevede, nemmeno in teoria. «La riforma non punisce quelle università che chiedono troppe tasse agli studenti - dice Giorgio Paterna, 26 anni, iscritto a Economia ad Ancona e leader del gruppo Unione degli Studenti - il rischio è che, per il terrore della bancarotta, i rettori mettano sempre più le mani nelle tasche dei ragazzi». Per legge gli atenei non potrebbero raccogliere dalle tasse più del 20 per cento di quanto prendono dallo Stato. Non lo dice la riforma Gelmini di là da venire, ma una norma in vigore dal 1997. E 25 università italiane oggi non la rispettano.