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Manifesto: A Montezemolo non piace statale

Il presidente di Confindustria attacca i dipendenti pubblici. Ma l'obiettivo è il contratto nazionale collettivo

05/12/2007
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il manifesto

Francesco Piccioni

Dr. Jekyll e Mr. Hide. Il doppio volto di Luca Cordero di Montezemolo appare evidente. Quando, da padre, qualche mese fa, ha avuto la fortuna di incontrare la sanità pubblica, mostrò il volto buono («mi sono commosso, sembrava di essere in Svizzera, pulito, efficiente con personale attento e premuroso», disse parlando addirittura del reparto pediatrico del Policlinico, ospedale romano allora investito da pesanti polemiche giornalistiche). Ieri, invece, ha mostrato il ghigno di Mr. Hide: «L'assenteismo è l'emblema dell'inefficienza e del cattivo funzionamento della pubblica amministrazione». Niente è sopravvissuto alla sua furia verbale: «Tra ferie e permessi vari un pubblico dipendente è fuori ufficio mediamente un giorno di lavoro su cinque. Tra i ministeri il top si raggiunge al ministero della Difesa, con 65 giornate di assenza in un anno, seguiti da ministero dell'Economia e da quello dell'Ambiente, entrambi con oltre 60 giorni».
Naturalmente questi comportamenti disdicevoli hanno un costo economico che un industriale quantifica subito: «azzerare le assenze diverse dalle ferie porterebbe a un risparmio di quasi un punto di Pil», ha detto. Giustamente gli è stato fatto notare che, così facendo, si inseriscono nell'assenteismo persino i periodi di maternità. E molti economisti hanno da tempo dimostrato che una popolazione meno malata - o che più banalmente facesse meno ricorso ai medici, agli ospedali o alle medicine - in realtà abbasserebbe il Pil (facendo contrarre la spesa sanitaria; ma guarda un po' tu dove si va a nascondere il diavolo!).
Ma il suo obiettivo è notoriamente un altro. «Dobbiamo decidere gli aumenti delle retribuzioni in base alla produttività, laddove la produttività nasce, cioè in azienda» significa - in soldoni - ridurre a quasi nulla il ruolo del del contratto nazionale («recupero dell'inflazione», concorda anche la Cisl) e parlare di aumenti solo a livello aziendale (una platea pari ad appena il 10-15% delle imprese). Di più. Sostiene che «l'orario di lavoro italiano è inferiore del 7,5% a quello del Regno Unito, del 13% a quello della Spagna e del 16% a quello degli Stati uniti».
Il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, e quello confederale, Paolo Nerozzi, hanno buon gioco a rispondergli che «i dati forniti dal presidente di Confindustria sull'assenteismo nel pubblico impiego non corrispondono al vero», avanzando anche il sospetto che si voglia in realtà interferire con il faticoso andamento del rinnovo del contratto per gli statali (scaduto da più di due anni e non ancora siglato nonostante un numero spaventoso di «accordi» raggiunti nel frattempo).
Non pago, il presidente degli imprenditori ha voluto esagerare, commentando l'indagine Ocse sulla scuola nei paesi avanzati. L'Italia sta a pezzi, come sappiamo per esperienza, e viaggia tra il 33° e il 38° posto sui 57 paesi presi in esame. «Risultati mortificanti di per sé, ma ancora di più se pensiamo che peggiorano rispetto alle precedenti rilevazioni». Enrico Panini, segretario generale della Flc Cgil, gli ricorda che «considerare per anni la scuola un problema di spesa porta a questi risultati».
Ma forse sarebbe bene anche ricordare che la china attuale della scuola e dell'università italiana ha una data di inizio precisa: il dicastero di Giancarlo Lombardi, lì paracadutato da Lamberto Dini direttamente dal dipartimento scuola di Confindustria. Erano gli anni in cui si cominciava la guerra santa contro la «scuola paludata», per riportarla sotto il metro dell'efficienza e del rapporto con l'impresa. Nessuna meraviglia, se - data la scarsa produttività dell'impresa italiana - la scuola ne abbia mutuato le deficienze.