Manifesto: Bilancio di una riforma ispirata a criteri punitivi
Per l'Università, la riorganizzazione sarà uno specchietto per le allodole, giacché spingerà i docenti a contendersi metro per metro le strutture e li distrarrà, così, da ciò che conta: lo svilimento del loro ruolo e l'esautoramento sostanziale dell'università pubblica
Stefano Catucci
Calato il sipario sulle elezioni europee si riapre quello sulla riforma universitaria. Il testo verrà presentato al Consiglio dei Ministri nei prossimi giorni, ma le linee del provvedimento sono note. Poiché in parte ricalcano un progetto rimasto nei cassetti di Fabio Mussi, ma evidentemente non finito nelle scatole del suo trasloco dal Ministero, il disegno di legge chiama in causa le responsabilità del governo precedente e renderà problematica ogni strategia d'opposizione in Parlamento, rivelando la natura bipartisan del progressivo svuotamento di funzioni dell'istruzione pubblica in Italia.
L'accelerazione impressa a questo processo dal governo in carica è comunque evidente: riducendo drasticamente nei prossimi anni il corpo docente, a essere ridimensionata sarà la possibilità di accogliere gli studenti nei corsi di laurea. Molti, specie nelle facoltà tecniche e scientifiche, resteranno fuori, non potendo essere rispettata la prevista proporzione studenti-docenti. Lo scadimento dell'offerta pubblica farà allora da volano alla crescita dell'Università privata, ammesso che qualcuno voglia investire in un settore socialmente in via di dismissione. D'altra parte la composizione dei nuovi Consigli d'Amministrazione, nei quali sette componenti su nove proverranno dal mondo delle imprese e del management, corrisponde al disegno di delegare al privato anche la gestione dell'Università pubblica.
L'autogoverno da cancellare
Il provvedimento firmato Gelmini interviene sulla riorganizzazione delle strutture universitarie, sulla disciplina dei concorsi e delle assunzioni, sulle «progressioni di carriera» di chi è già interno, sulla ridefinizione dei contratti di lavoro. Di fatto, a caratterizzarne l'impianto è un atteggiamento punitivo nei confronti dell'Università pubblica. Non proverranno da ruoli universitari né la nuova figura del Direttore Generale né il collegio dei Revisori dei Conti, nominato dai Ministeri dell'Istruzione e dell'Economia con buona pace dell'autonomia universitaria. Nei «Nuclei di Valutazione» dovrà figurare una maggioranza di componenti non universitari, ma se è universitario il presidente tutti gli altri non dovranno esserlo. Nella Consulta di Ateneo, organo designato a compiti generali di «iniziativa e verifica», dovranno comparire solo rappresentanti del «mondo culturale e imprenditoriale» esterno all'università. Non si tratta perciò, come annunciato, di rafforzare l'Agenzia Nazionale di Valutazione (Anvur), ma di esautorare il principio dell'autogoverno degli atenei in base alla convinzione che l'Università sia strutturalmente incapace di esercitarlo. Certo nessuno potrebbe difendere il funzionamento attuale delle Università, ma anni di campagne mediatiche spesso promosse anche da una stampa ostile al governo («La Repubblica» in prima fila) ne hanno fatto percepire solo il marcio, preparando a qualsiasi ritorsione tramite una squalificazione martellante.
Ipocrita dissimulazione
I riflessi di questa campagna compaiono fin dalle prime righe del provvedimento, dove si prevede che le università adottino un «codice etico» per evitare «casi di incompatibilità e conflitti di interesse»: esigenza indiscutibile e tuttavia quasi comica, se si pensa al pulpito da cui proviene. Ma punitivo, più in generale, è il complesso dei meccanismi con i quali l'Università viene separata da se stessa, ridotta a terminale di un controllo basato esclusivamente su misure di bilancio, incitata ad assumere criteri di produttività messi in relazione con un mondo del lavoro virtuale, esistente nei piani del Ministero ma non nei dati dell'Istat. Il sistema dei concorsi parte dall'adozione di commissioni uniche nazionali per un giudizio di idoneità, ma poi precipita in ulteriori concorsi locali per l'assegnazione effettiva dei posti: un percorso a ostacoli che allunga i tempi e non offre garanzie se non di facciata. I vincoli di bilancio sono così angusti che per diversi anni sarà quasi impossibile avere nuovi ricercatori e docenti, fatto salvo il ricorso a un sistema di deroghe e di clientele su cui, al solito, ogni ateneo farà assegnamento in base alla propria forza per evadere le restrizioni. Per un'intera generazione di studiosi ci sono ostacoli praticamente insormontabili: se davvero non potrà partecipare a un concorso per ricercatore chi abbia ottenuto il titolo di dottore di ricerca più di cinque anni prima, intorno ai trentacinque anni converrà inventarsi un altro mestiere. La riorganizzazione dell'Università terrà occupati i docenti per un quinquennio: tanto ci vorrà, come minimo, per sciogliere o fondere le facoltà esistenti, rinominarle, accorpare dipartimenti o crearne di nuovi. Il tutto senza nuove risorse, anzi in nome della «razionalizzazione».
Ai virtuosismi comunicativi del governo siamo abituati, basti pensare che l'impossibilità di mantenere il tempo pieno nelle scuole è stata presentata come un «aumento della possibilità di scelta per le famiglie», le quali in effetti potranno «scegliere» di arrangiarsi senza scuola. Per l'Università, la riorganizzazione sarà uno specchietto per le allodole, giacché spingerà i docenti a contendersi metro per metro le strutture e li distrarrà, così, da ciò che conta: lo svilimento del loro ruolo e l'esautoramento sostanziale dell'università pubblica. Su questo occorre concentrarsi, invece, se l'università vuole far sentire la sua voce.