Iscriviti alla FLC CGIL

Home » Rassegna stampa » Rassegna stampa nazionale » Manifesto-Dentro la scuola in fila per tanti

Manifesto-Dentro la scuola in fila per tanti

INTERVISTA Dentro la scuola in fila per tanti Dopo il no di Moratti alle classi "separate", alla ricerca di un modello di intercultura che superi sia l'esempio tedesco, basato sulla separatezza, sia...

15/07/2004
Decrease text size Increase text size
il manifesto

INTERVISTA
Dentro la scuola in fila per tanti
Dopo il no di Moratti alle classi "separate", alla ricerca di un modello di intercultura che superi sia l'esempio tedesco, basato sulla separatezza, sia quello francese, imperniato sull'assimilazione. Parla la pedagogista interculturale Graziella Favaro
CINZIA GUBBINI
Arriva la proposta delle classi separate per gli studenti di religione islamica e finalmente esplode in Italia il dibattito sul significato dell'intercultura e sul ruolo della scuola pubblica in questo processo delicato e irrinunciabile. La ministra Moratti ha deciso di bloccare la sperimentazione delle scuole milanesi (un liceo, una media e un'elementare), ma "il caso non è chiuso". L'origine del problema rimane, "ora è il caso di prenderlo in mano e pensare a possibili soluzioni", osserva Graziella Favaro, pedagogista dell'intercultura, della commissione nazionale "Educazione interculturale" del ministero dell'istruzione e autrice di diversi volumi che esplorano contraddizioni e sfide dell'essere "maestri" nel marasma di una scuola che cambia.

Nel dibattito di questi giorni si sono creati due "partiti": uno contrario all'ipotesi "separatista" e uno favorevole, sulla base del principio di "negoziazione". Cosa ne pensa?

Questi blocchi sono rigidi e tendono alla semplificazione, come del resto appariva schematica la soluzione prospettata dalle scuole milanesi. Se devo scegliere un partito, opto comunque per quello aperto a tutte le forme possibili di negoziazione, partendo però da alcuni princìpi, che non possono essere messi in discussione. Da un lato abbiamo gli orizzonti della normativa che deve tradurre in pratica un modello di integrazione, e dall'altro ci sono le esperienze condotte su questo tema all'estero e anche in Italia, dove esiste una tradizione decennale sul tema dell'intercultura. In questo campo è impossibile riferirsi soltanto a princìpi teorici, disincarnati dalla pratica.

Ma nella pratica, come è possibile negoziare partendo da paletti indiscutibili?

Episodi di questo tipo capitano quotidianamente. Succede che i genitori esprimano esigenze particolari: alcune - penso ad esempio alle scelte alimentari, o ai contrassegni nel vestire come il velo o il fazzoletto per i Sikh - possono essere accolte dalla scuola, in altri casi si tratta di questioni come l'educazione fisica in classi miste o la partecipazione alle uscite scolastiche, per cui è necessario negoziare, parlare con la famiglia che può essere diffidente nei confronti della scuola. Per questo, naturalmente, è indispensabile investire risorse: esiste la figura del mediatore culturale che ha proprio il compito di creare un ponte, spiegare, informare. Il punto, comunque, consiste nel rifiutare la chiave di lettura della provvisorietà e partire dall'idea che abbiamo a che fare con futuri cittadini italiani, anche se spesso i genitori hanno progetti migratori a breve termine e pensano di tornare, prima o poi, nel proprio paese di origine.

Abbiamo parlato spesso di integrazione, che non è un termine neutro e può essere interpretato in modi molto diversi. Qual è il suo modello?

Credo che l'integrazione sia innanzitutto un processo, che può avere molte diversità al suo interno: differenti sono i bambini, le loro provenienze ma anche le località di accoglienza. Occorre dunque essere flessibili. Questo è un progetto, che non si limita all'ambito della classe ma investe la scuola e la società, ed è dunque multidimensionale, investe il gioco, gli affetti, le amicizie, gli spazi. Perché funzioni, però, il processo deve essere bilaterale: deve esser fatto da chi accoglie ma anche voluto da chi arriva. Si tratta di superare i due vecchi modelli di riferimento: da una parte il sistema tedesco basato sulla separatezza (in Germania le classi separate sono sempre esistite, anche per i figli degli immigrati italiani) e dall'altro il modello francese, storicamente basato sull'assimilazione che tende all'omologazione. Il mio modello di integrazione cerca di superare questi due blocchi, partendo dal presupposto che non esistono identità e culture standard. Nella scuola italiana diverse pratiche ragionano su queste direttrici: lo scorso anno per esempio la direzione regionale lombarda ha coinvolto più di ottanta scuole superiori in un progetto che ha offerto la possibilità agli studenti di frequentare corsi di arabo, cinese, giapponese, frequentati in parte dai ragazzi di quelle lingue ma, per lo più, da ragazzi italiani.

Quindi la soluzione prospettata dalla scuole milanesi avrebbe dato vita a uno scambio "sbagliato"?

Secondo me la soluzione della separatezza è sbagliata per principio, per i ragazzi italiani come per quelli stranieri, perché si viene meno al compito principale della scuola che è quello di stabilire diritti e doveri comuni.

In molti sostengono che questo modello comporterà la nascita di scuole private islamiche. Lei cosa ne pensa?

Non sarò certo io a suggerire questa soluzione, ma una prospettiva del genere non mi scandalizza: esistono scuole private, riconosciute dallo stato, cattoliche o ebraiche, ma anche basate sulla nazionalità, come le scuole tedesche o inglesi. Ma la scuola pubblica deve essere altro.

Cosa si sente di suggerire agli alunni della scuola di via Quaranta a Milano che pensavano, da settembre di poter frequentare una scuola pubblica italiana?

La scuola italiana ha innanzitutto il dovere dell'inserimento e dell'accoglienza. Adesso è necessario parlare con ogni singola famiglia e con le famiglie riunite sui nodi fondamentali. Il presidente del centro culturale islamico di viale Jenner ha dichiarato che la classe separata avrebbe aiutato i ragazzi a mettersi alla pari con l'italiano, la storia, la geografia, a non essere insomma una zavorra per la classe. Questa è un'esigenza risolvibile con gli investimenti adeguati, attraverso i "facilitatori linguistici", magari attivando corsi in arabo che aiutino questi studenti a recuperare le loro lacune.

A proposito di famiglie, questa vicenda non dimostra che i bisogni e i desideri di genitori e figli sono a volte in contrasto?

Certo, è una situazione ricorrente nei nuclei famigliari delle persone immigrate. Di recente a un campione di studenti stranieri di terza media e ai loro genitori, è stata posta la domanda: "dove vedi i tuo futuro?". Mentre la maggior parte dei genitori lo colloca nel paese di origine, le risposte dei figli si dividono: molti vedono il loro avvenire in Italia, una piccola parte nel paese di origine e una parte significativa in un terzo paese, come se questi ragazzi immaginassero un altro viaggio, un luogo dove non sono più figli degli immigrati ma ricostruiscono un percorso autonomo. La scuola, in questo, deve essere capace di non negare le radici ma cercare di far sì che i ragazzi non siano "ostaggi" di una tradizione.

Cosa pensa, invece, della delibera della regione Campania sulle festività degli alunni stranieri?

L'intenzione secondo me è molto positiva, perché si basa sul principio del riconoscimento: è importante che nelle scuole si parli dei modi convenzionali di misurare il tempo in base alle diverse culture. Concretamente, però, mi sembra impraticabile. In Italia abbiamo studenti provenienti da 189 paesi diversi e nelle classi abbiamo un modello plurale. Come si fa, allora, a decidere chi ha il diritto di festeggiare?