Iscriviti alla FLC CGIL

Home » Rassegna stampa » Rassegna stampa nazionale » Manifesto: Generazioni e Liberazione

Manifesto: Generazioni e Liberazione

25 APRILE Enzo Collotti

25/04/2010
Decrease text size Increase text size
il manifesto

Parlare oggi del 25 aprile 1945 a sessantacinque anni di distanza significa porsi innanzitutto una serie di interrogativi, e non soltanto per la distanza di tempo che ci separa da quella data ma principalmente per la lontananza culturale che ormai avvertiamo, nel contesto politico nel quale siamo costretti a vivere, se è vero che dai programmi d'insegnamento per la scuola secondaria è stata eliminata la voce relativa al capitolo della Resistenza. Prima domanda: che senso ha oggi parlare della Repubblica nata dalla Resistenza? Questa espressione fu usata e abusata nei decenni trascorsi come corollario del mito dell'unità antifascista. Quell'espressione spesso è stata svilita dalla sua risonanza retorica; storicamente oggi, sul lungo periodo della nostra vicenda nazionale, essa ha perso ogni risvolto retorico ed acquista o riacquista il suo significato più vero e più profondo. È l'attualità politica che glielo conferisce: nel momento in cui si tenta di dare il colpo mortale a ciò che rimane almeno dal punto di vista formale della Costituzione del 1948, essa rappresenta il richiamo alle radici del processo storico dal quale è nata la Costituzione.
La Costituzione non è sistema di norme morte ma un sistema di valori vivi ed è sulla base di questa natura che si misura il suo significato dal punto di vista della periodizzazione della nostra storia nazionale e come fondamento dell'intera struttura del nostro sistema politico democratico. È il richiamo alla Resistenza che ci ricorda che il processo costituente del biennio 1946-1948 è derivato dalla lotta contro il fascismo e dalle ceneri del più devastante conflitto scatenato dalle dittature nazifasciste. Sembra un paradosso che la più antifascista delle Costituzioni abbia avuto a sopravvivere nel paese che con maggiore pervicacia si è rifiutato di fare fino in fondo i conti con il suo passato fascista.
Altrimenti non ci troveremmo di fronte all'obbligo di spiegare che Giacomo Matteotti non è scomparso a causa di una malattia incurabile ma è stato ucciso dai fascisti. Già, perché nominare il fascismo sta diventando una stravaganza, quasi a rompere una tregua delle parole destinata a occultare i momenti oscuri della nostra storia.
Seconda domanda: che cosa sanno i giovani oggi della Resistenza? Quali sono gli strumenti utili a trasmettere loro la conoscenza di questo capitolo della nostra storia, nella scuola e fuori della scuola? Il quesito nasce dal fatto che è nella trasmissione tra le generazioni che la conoscenza storica diventa tradizione e patrimonio culturale di una società, ponendo anche le basi per una costruzione della memoria. Nel caso specifico della Resistenza la presenza della generazione che in essa è stata attiva ha rappresentato un fattore essenziale nella formazione di figli e nipoti; oggi che la generazione degli anziani, dei reduci dalla lotta partigiana e dalle diffuse reti clandestine nelle aree urbane e nelle campagne si assottiglia, al pari dei sopravvissuti ai campi di sterminio e dei reduci dai campi di concentramento e di prigionia, la trasmissione della conoscenza e della stessa memoria è destinata a seguire percorsi sempre più mediati.
Il rapporto tra i testimoni, troppo spesso ritenuti l'unica via di conoscenza per il carattere diretto del loro racconto, e gli storici, inclini ad usare anche nei confronti dei primi il metodo della critica delle fonti, tenderà sempre più a spostarsi dalla parte degli storici, rendendo il loro ruolo assolutamente indispensabile nella trasmissione di certe conoscenze.
Un lavoro che sarà tanto più importante in quanto, come ci è dato di constatare ancor oggi frequentemente, essi non opereranno più soltanto su fonti di seconda mano e sull'inevitabile alternarsi delle interpretazioni storiografiche ma disporranno ancora di documentazioni e racconti di protagonisti diretti di questa storia. Soltanto per fare un paio di esempi: si pensi alla documentazione da poco edita delle carte sull'attività partigiana prodotte durante la Resistenza o immediatamente dopo da un esponente di Giustizia e Libertà come Mario Dal Pra (a cura dell'Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione) o alla memoria della deportazione redatta subito dopo la liberazione da un contadino toscano ed ora in stampa sotto gli auspici della regione Toscana. Ma questi non sono che piccoli esempi di un patrimonio documentario destinato gradualmente ad emergere e a rendere la freschezza di un clima che le mediazioni, quali che esse siano, storiche o letterarie, all'epoca del centrismo più chiuso e delle contrapposizioni più acute della guerra fredda, la necessità vera o come tale percepita di difendere la Resistenza da un attacco concentrico portò molte volte a semplificarne il significato e a darne una rappresentazione poco meno che monolitica. Oggi questa visione sarebbe insostenibile. Quando ci apprestammo a redigere l'einaudiano Dizionario della Resistenza una delle idee-guida che ispirò il nostro lavoro fu quello, al contrario, di mostrare la complessità e il carattere poliedrico del fenomeno e dell'esperienza resistenziale, sia come diffusione sull'intero territorio nazionale soggetto al controllo della Wehrmacht e dei collaborazionisti di Salò, sia come molteplicità delle sue componenti. In questo caso la distanza del tempo dei fatti ci aiutò ad acquisire dell'esperienza della Resistenza una visione meno schematica e più articolata.
Oggi forse si è perso qualcosa del carattere epico, corale che fu tipico delle prime grandi narrazioni della Resistenza, a cominciare dalla celebre Storia di Roberto Battaglia, che fu tra le letture privilegiate della nostra generazione, ma in compenso attraverso la problematizzazione delle sue vicende e delle scelte compiute dai suoi protagonisti, delle quali si è fatto interprete con grande sensibilità e finezza Claudio Pavone, si è compiuto gradualmente il passaggio dall'indistinto del mito collettivo alla concretezza delle esperienze compiute dalle donne e dagli uomini che si impegnarono con o senza le armi nella rete della clandestinità.
L'Italia di oggi stenta a riconoscersi nelle generazioni che hanno fatto la Resistenza - quella dei più anziani della tradizione antifascista animata dalla prima opposizione al fascismo e dalla prova della guerra di Spagna e quella della più giovane leva portata alla ribellione dalla disfatta della guerra fascista e dalla resa morale di un regime sopraffattore e corrotto. Ma proviamo a immaginare che cosa sarebbe la nostra democrazia se non ne riconoscessimo alle sue radici, l'impegno di coloro che affrontarono i rischi della lotta in condizioni che parevano disperate; che cosa sarebbe la nostra Costituzione se non sapessimo che i valori che vi sono consacrati, dai diritti di libertà alla proclamazione di eguaglianza di tutti i cittadini, dal ripudio della guerra alla negazione di ogni discriminazione, derivano direttamente da quel 25 aprile come simbolo del rovesciamento che vogliamo augurarci definitivo della dittatura fascista. La Resistenza, insomma, come principio ispiratore e criterio di interpretazione della nostra democrazia, a dispetto dell'agnosticismo storico e delle ambiguità dell'attuale classe politica, che ha assorbito senza alcuna rielaborazione un contingente non secondario degli sconfitti del 25 aprile. Per la buona salute della nostra coscienza democratica, nella speranza che essa stia a cuore a tutte le forze della nostra società che guardano sinceramente a sinistra, siamo convinti che il patrimonio di pensiero e di prassi politica che discende dalla Resistenza sia tuttora vitale e che non deve andare disperso, fosse anche solo come patrimonio e potenziale critico con il quale guardare alla miseria di una classe politica sensibile soltanto ai privilegi del potere e priva di ogni slancio ideale e di ogni prospettiva che vada al di là del proprio provinciale egoismo.