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Manifesto: Gli atelier della ricerca

La politica dei tagli per l'università rende sempre più debole l'economia della conoscenza made in Italy. Invertire la rotta è un obiettivo da perseguire con ogni mezzo, compresa la collaborazione con il capitale privato. Un'intervista con lo studioso Enzo Rullani

18/02/2010
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il manifesto

UNA RETE PER SCIOGLIERE I NODI DELL'UNIVERSITÀ
Roberto Ciccarelli
Per virtù, o per necessità, tanto dall'alto quanto dal basso, mediante trattativa privata con il governo o con una decisione a maggioranza, l'economia italiana della conoscenza sta cambiando seguendo le disparità produttive e sociali delle sue aree geografiche. E mentre si moltiplicano le notizie di atenei e centri di ricerche al collasso, la ricca Provincia autonoma di Trento abbuonerà ad esempio i crediti del governo fino al 2018 e, in cambio, ha ricevuto una delega assoluta sull'ateneo locale - classificato dal Miur al primo posto per produttività - «liberando» l'amministrazione centrale dello Stato da una spesa da 73 milioni di euro annui.
Per Enzo Rullani, uno dei maggiori studiosi di economia della conoscenza in Italia, «è un bene che gli enti locali si impegnino nello sviluppo dell'università, ma a condizione che non lo facciano con iniziative estemporanee o localistiche».
Ritiene che queste iniziative rompano l'uniformità del sistema nazionale già alle corde per i tagli al finanziamento ordinario?
Sono proprio i quattro soldi forniti al bilancio dell'università a creare nuove sedi e nuove facoltà, anche al di fuori di un serio programma di specializzazione in rete e di rapporto con la domanda pagante. In mancanza di un rilancio in senso evolutivo del sistema universitario stiamo assistendo ad una lenta asfissia che fa solo peggiorare la qualità senza premiare l'innovazione intelligente.
Quale soluzione propone?
Se il vizio fondamentale che rende inerziale l'università attuale è l'autoreferenzialità indigente, il modo migliore per valutare quello che ciascuno sa e sa fare è un sistema della ricerca basato su voucher distribuiti alla domanda affinché i potenziali utilizzatori della ricerca scelgano le partnership migliori.
Ma così non si privilegia la logica privata degli interessi?
Al contrario, il ruolo di governo del sistema da parte della mano pubblica starebbe in questo caso nella creazione delle regole di specializzazione-integrazione tra sedi diverse, nella distribuzione dei voucher alla domanda in rapporto certi settori di studio e a certe valutazioni di merito, nella creazione di comunità informate e nella organizzazione del circuito complessivo. Il pubblico deve impegnarsi per rendere dinamico e innovativo il comportamento delle persone e delle imprese, mettendo i migliori, tra gli offerenti, in condizione di fare squadra con i migliori tra i potenziali utilizzatori.
Per quale motivo l'Italia non ha privilegiato questa politica?
Penso che questo sia un grave errore. Il sapere oggi non può essere ancorato a specializzazioni date, ma, ma dev'essere continuamente decostruito e ricostruito. Dobbiamo recuperare l'umanesimo del sapere, perché la tecnologia non basta a indirizzare e governare creativamente la complessità. Su questo zoccolo duro di sapere di base comune a tutti gli studenti si potrà creare una gamma di specializzazioni reversibili che possano rapidamente crescere e poi regredire. Un simile disegno non può però essere coltivato da un unico ateneo, considerato isolatamente. Sarebbe come una grande organizzazione fordista che cerca invano di contenere la varietà del mondo al proprio interno. Invece bisogna alimentare le differenze mettendo in rete il sapere specialistico delle università che accettano di dipendere l'una dall'altra. Il problema delle nostre università non è difendere il sapere che producono e trasferiscono così com'è, ma quello di trasformarsi in organizzazioni mobili, policentriche, in modo da far lavorare insieme molti cervelli e non pochi.
Come si esce da questa situazione?
In due modi. Specializzare i campi di competenza, condividere una base di sapere comune e creare reti per innovare in campi nuovi e difficili. Una rete porta vantaggi a tutti, al grande ateneo di Milano o di Roma e al piccolo ateneo che lavora sulle nicchie ma viene valorizzato dal fatto che gli studenti e i ricercatori di Milano o di Roma, interessati alla nicchia, vengano a lavorare in periferia. E viceversa. E poi stimolando l'intelligenza della domanda degli studenti per fare evolvere l'offerta formativa. Facciamo un bel programma di case per gli studenti che renda possibile e conveniente la mobilità tra le offerte universitarie. Si potrebbe creare un sistema di borse di studio che permetta agli studenti di scegliere le offerte formative più convincenti. Questioni che le varie riforme continuano a lasciare al margine, mentre diventano centrali se si dà un maggiore potere alla domanda intelligente, rispetto all'offerta inerziale e autoreferenziale.
Il governo ha annunciato investimenti per 10 miliardi entro il 2013 per «ricerca e sviluppo», a cui è destinato un drammatico 0,56 del Pil. Le sembra un impegno realistico?
Non sappiamo se l'investimento pubblico previsto dai programmi Programma nazionale della ricerca e i «contratti di innovazione tecnologica» di cui hanno parlato i ministri Gelmini e Scajola corrisponderanno alla fine a questa cifra. Spero di sì, ma l'esperienza passata consiglierebbe cautela. Direi che più che guardare all'entità della spesa, dovremmo curare la qualità delle competenze da creare.
Come possono essere gestite queste risorse?
Per quanto riguarda le tecnologie di base, non ci si dovrebbe concentrare sulla costruzione di pochi grandi laboratori destinati a rimanere separati dal tessuto di produzione diffusa e applicativa del nostro capitalismo. Sarebbe meglio cercare di organizzare una rete diffusa di ricerca con personale che ha un piede nelle imprese, un altro nelle università, e un altro ancora nel sistema internazionale della ricerca.
Gli investimenti annunciati potrebbero creare 30 mila nuovi ricercatori. Come impiegarli?
Mi auguro che si stia pensando a nuove figure di lavoratori qualificati che, per rimanere collegati alla grande rete del sapere, frequenteranno per un certo numero di ore alla settimana attività di tipo scientifico-universitario andando oltre le attività meramente applicative svolte nelle aziende. So che, quando si guarda a questo tipo di problemi, ci sono sempre timori di contaminazione tra profitto privato e sapere universitario pubblico, tra conoscenze astratte e conoscenze applicative. Non sono inquietudini infondate, ma quello che oggi porta un valore aggiunto, anche nel campo scientifico, è l'intreccio di dimensioni diverse, non la loro separazione in spazi distinti e incomunicabili.
In queste condizioni esistono delle possibilità per ridefinire una politica industriale ridotta, in passato, a quello che lei definisce un «ruolo ornamentale»?
È importante che ci si renda conto che il made in Italy non può più crescere senza investimenti in ricerca, innovazione, scuola e università. Nel mondo del globale e dell'immateriale, la conoscenza non si applica e non si comunica se non si padroneggiano i linguaggi formali come l'ingegneria, l'informatica, il management, la contabilità, il diritto, l'estetica, l'antropologia che permettono di plasmare la complessità in modo flessibile e creativo, adatto a usi e clienti differenti. Gli italiani non possono più fare, come dopo la guerra, i cinesi d'Europa. Oggi competono con cinesi, indiani, turchi, e i produttori low cost in generale. Non basta più affidarsi al capitale sociale gratuito di conoscenze e di relazioni che il capitalismo delle piccole imprese e dei distretti ha trovato sul territorio. Bisogna creare un differenziale cognitivo e investire nell'intelligenza fluida delle persone e delle organizzazioni produttive, costruendo al tempo stesso le reti che le possano far rendere.
Eppure tutte le riforme della formazione, compresa quella della scuola annunciata dalla Gelmini, ignorano questa visione d'insieme, preferendo il piccolo e un sapere ready made...
Il capitalismo delle piccole imprese ha fatto cose egregie quando si è trattato di usare conoscenza pratiche, divisibili in tanti moduli di piccola entità che poi possono essere messi in rete tra loro, ricostituendo filiere e conoscenze complesse. Ha fornito al mercato la flessibilità e la creatività che scarseggiavano nelle grandi organizzazioni. Ma oggi è cambiato lo scenario e una trasformazione è imprescindibile. Per innovare, l'intraprendenza pratica non basta più. Bisogna associarla ad un investimento rilevante in conoscenza teorica, cioè nel personale istruito, nella ricerca, nei brevetti, e in relazioni proprietarie, cioè in marchi e in reti commerciali.
Se è difficile puntare sulla ricerca di base, visto quanto si investe in Italia in questo campo, dove si può creare un differenziale cognitivo?
Resta l'assoluta necessità di mantenere un accesso efficace a quanto di nuovo si scopre nella ricerca di base. Magari da parte di altri. A noi tocca il compito, non meno rilevante, di fare innovazioni d'uso che sfruttino le nuove possibilità tecniche nella progettazione di una migliore qualità della vita. Nel vestirsi, nel mangiare, nell'abitare, nel divertirsi, nel comunicare, nel fare cultura, nel curare la propria e l'altrui salute. Vi sembra poco?