Manifesto: Il grande massacro della scuola pubblica
Chiamiamo le cose col loro nome: oggi nella scuola italiana è in atto il più grande licenziamento di massa della storia della nostra Repubblica. È un fatto storico, drammatico, ma ben pochi organi di informazione ne parlano.
Giuseppe Caliceti
Chiamiamo le cose col loro nome: oggi nella scuola italiana è in atto il più grande licenziamento di massa della storia della nostra Repubblica. È un fatto storico, drammatico, ma ben pochi organi di informazione ne parlano. Gelmini ha parlato di 150 mila lavoratori in meno in tre anni: se fossero lavoratori della Fiat o dell'Alitalia scoppierebbe una mezza rivoluzione, ma visto che a licenziare è lo Stato e licenzia docenti, tutto, inquietantemente, tace. Prima di ogni elezione ogni politico ci ricorda che occorre investire di più nei giovani e nella formazione perché sono il nostro futuro.
Ma oggi il nostro Paese è noncurante del futuro grigio che l'attende ed è appiattito su un presente manipolato quotidianamente da un'informazione governativa di parte che condiziona pesantemente ogni settore dell'opinione e della vita pubblica.
Scuola compresa.
Il licenziamento di massa colpisce soprattutto i precari, la cosiddetta plebe indocent. Alcuni occupano le sedi degli ex uffici scolastici provinciali, gli ex provveditorati agli studi. Altri si raccolgono in sit-in.
Altri fanno lo sciopero della fame. Altri ancora, ben 15.000, patrocinati dall'Anief - l'Associazione nazionale insegnanti ed educatori in formazione -, hanno ottenuto dal Tar Lazio l'inserimento in graduatoria «a pettine» (cioè, in base al punteggio) e non «in coda», come preteso dalla Lega. Per il momento il ministero ha dato indicazioni di ignorare la sentenza in attesa che il Consiglio di Stato confermi o meno quanto già stabilito dal Tar: se dovesse dargli ragione, si dovranno ripetere le nomine a anno scolastico iniziato, creando ulteriore caos nelle aule.
I tagli agli organici del personale previsti in questo primo anno sono 42mila e 500 tra insegnanti e 15 mila tra il personale ausiliario. E questo sarebbero solo l'inizio di un «virtuoso» triennio. Saranno almeno 16 mila i supplenti di scuola media e superiore che non troveranno più la cattedra. A loro occorre sommare i colleghi della scuola elementare, appiedati dallo smantellamento del «modulo». E almeno 10 mila Ata che, dopo anni di supplenza e l'aspettativa di entrare di ruolo, si ritrovano di punto in bianco disoccupati.
E' facile prevedere che nei prossimi giorni, quando si svolgeranno le convocazioni per l'assegnazione delle supplenze, la protesta si estenderà a macchia d'olio: solo allora, infatti, tutti avranno l'esatta percezione di quanti di loro resteranno senza lavoro. E al Sud ci si accorgerà improvvisamente di trovarsi in una vera e propria emergenza sociale: tanto è vero che, dopo aver brandito la scure, ora anche Tremonti parla timidamente di cassa-integrazione per i docenti..
Gelmini, annunciando nei giorni scorsi le novità sul reclutamento e la formazione dei nuovi insegnanti, che in buona parte possiamo anche condividere, è come le maestrine della penna rossa di una volta: fa un bel segno su quello che c'era prima, strappa la pagina, tutto da rifare, senza preoccuparsi di chi rimarrà senza lavoro. Ma c'è di più: vieta protestare. Perché, per esempio, «ogni dirigente scolastico, a qualunque parte politica appartenga, è tenuto al dovere di lealtà verso lo Stato e al necessario riserbo nelle sue esternazioni». Parola dell'onorevole Garagnani (Pdl). Ma la pensa così anche il direttore scolastico regionale dell'Emilia Romagna: non ritiene che una preside, Daniela Turci, consigliere comunale a Bologna, possa criticare le politiche della Gelmini. Questa è la regola non scritta della Gelmini: siate ubbidienti e servili. L'ideologia pericolosa del Governo-Azienda si riproduce nella Scuola-Azienda. Non ti licenzio, osi protestare? La concezione della democrazia e del rapporto fra i funzionari dello Stato e loro dirigenti è sempre più preoccupante. Chi è dipendente dello Stato non potrebbe esprimersi criticamente e pubblicamente su come i superiori operano per quel «bene comune» che è sempre meno bene e sempre meno «comune». Per quanto tempo ancora i direttori generali, regionali, provinciali, e pure tantissimi presidi tenteranno di tenere chiuso il coperchio d'una pentola che, ora per ora, borbotta sempre più? Nessuno si accorge che stiamo arrivando a larghe falcate alla fascistizzazione della Scuola?