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Manifesto: «La crisi economica affanna gli atenei»

ALMA LAUREA Parla Andrea Cammelli

19/05/2010
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il manifesto

Benedetto Vecchi
È convinto che l'università italiana è in affanno, ma respinge le analisi che descrivono la formazione superiore come una realtà allo sbando. E ogni volta che la domanda si sofferma sugli aspetti macroscopici della disfunzione degli atenei, lascia parlare le cifre su come è cambiata l'università negli ultimi dieci anni, sottolineando che una qualcosa è cambiato da quando è stata varata la riforma nota come la riforma del «3+2». Andrea Cammelli è il presidente del consorzio interuniversitario «Alma Mater» che si è costituito proprio per verificare la sua applicazione. All'obiezione che alla situazione universitaria italiana il termine affanno non si addice poco, perché troppo positivo, risponde che non è certo sua intenzione dare una lettura apologetica, ma che bisogna pur riconoscere il fatto che oltre il settanta per cento dei laureati negli ultimi dieci anni provenivano da famiglie che consideravano la possibilità di una laurea per i propri figli una specie di miraggio. «Questo non significa però - aggiunge - che tutto funziona a meraviglia. La situazione italiana è molto cambiata e serve elaborare una griglia interpretativa adeguata alla nuova situazione».
Nelle vostre ricerche emerge tuttavia che la percentuale dei laureati rispetto alla popolazione italiana si assesta a un malinconico 19 per cento, molto al di sotto del 54 per cento del Giappone, il 41 per cento della Francia e il 40 per cento degli Stati Uniti.....
In Italia la percentuale di laureati è stata sempre molto bassa. I dati raccolti da «Alma Laurea» mettono in evidenzia che solo nove persone su mille al di sopra dei 55 anni ha una laurea in tasca al di sopra. Negli ultimi dieci anni le iscrizioni all'università sono aumentate, ma non abbiamo certo colmato il divario rispetto agli altri paesi dell'Ocse. Il dato più preoccupante è però un altro. Da alcuni anni a questa parte il numero di iscrizioni ha cominciato a diminuire. Una tendenza spiegata dalla crisi economica, perché i costi di accesso all'Università sono elevati rispetto a redditi familiari fermi al palo o ridotti dalla recessione.
Le difficoltà economiche richiedono interventi mirati, ma non è questo il mio campo. Conosco però abbastanza bene l'Università e sostengo che in Italia mancano iniziative istituzionali che diano corpo e sostanza al diritto di studio. Nel disegno di legge del governo ci sono delle indicazioni in questo senso. La speranza è che dalle indicazioni si passi all'azione.
Per il momento, registro il fatto che i costi per iscriversi all'Università sono troppo elevati e che la «soglia educazionale» si è alzata. Mi spiego meglio. In passato, chi si iscriveva all'università pensava alla laurea come meta finale. L'aumento delle iscrizione ha visto però un fenomeno poco analizzato. Le famiglie con redditi medio-alti hanno infatti investito in master postuniversitari da svolgere tanto in Italia che in altri paesi. Questo non è accaduto per le famiglie con redditi bassi. Tutto ciò per dire che l'università di massa non cancella le divisioni sociali se non vengono attuate politiche di sostegno al diritto allo studio: uno studio, va da sé, di qualità e per tutti.
Sempre seguendo i dati delle vostre ricerche, emerge che chi svolge un lavoro di ricerca è occupato prevalentemente nell'università o nei centri di ricerca pubblici. Cosa che non accade negli altri paesi....
In Italia le imprese investono pochissimo in ricerca e sviluppo. Rispetto alle già basse percentuali di investimenti in ricerca e sviluppo rispetto al prodotto interno lordo, solo il 33 per cento dei ricercatori scientifici lavora in centri di ricerca privati, rispetto al 68 per cento in Giappone, il 67 per cento in Svezia o il 66 per cento in Germania. Investiamo dunque poco in ricerca e sviluppo e questo è sbagliato. Un errore che potremmo pagare caro se pensiamo alla crisi. È questo il tempo di investire e molto, perché al termine della crisi potremmo avere più chance per rilanciare più velocemente lo sviluppo economico. E se per le imprese è facile da spiegare, perché la ricerca, l'innovazione è un fattore importante della competività, per chi vuole entrare nel mercato del lavoro possedere una laurea significa avere maggiori chance di trovare un'occupazione rispetto a chi non ha frequentato l'università.
Manca una comparazione con i cosiddetti paesi emergenti, la Cina, l'India, il Brasile.....
Ha ragione, ma non ci sono dati attendibili. Vorrei però dire che uno degli aspetti che occorre potenziare è l'orientamento scolastico. Chi si iscrive all'università, spesso non sa quale corso prendere rispetto alle opportunità di lavoro. Bisogna investire anche su questo. Noi di «Alma Laurea» ci abbiamo provato con un servizio specifico consultabile e da usare su Internet. Occorre dunque che gli atenei italiani curino meglio questo aspetto, invece che fare un po' di marketing per attirare iscrizioni.