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Manifesto: La Finlandia fa scuola nell'insegnamento

Chiara Acciarini non mi convince la proposta di Andrea Ichino, commentata da Alba Sasso e ribadita dallo stesso Ichino sul manifesto del 14 marzo.

21/03/2008
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il manifesto

«Quando si è ammalati si sta a casa». Così rispondevo quando alla Cgil-scuola di Torino - dove per alcuni anni ho fatto consulenza per gli insegnanti - qualcuno mi chiedeva: «Per quanto tempo si può restare a casa?» La risposta conteneva l'unica informazione corretta possibile perché lo «stare a casa» è sempre collegato a situazioni a dir poco spiacevoli. La malattia oppure quei «motivi di famiglia» che alludono alla necessità di assistere i propri cari in circostanze che nessun preside si augurerebbe mai di scrivere in una domanda di congedo e che, comunque, devono essere accertati e accettati dai dirigenti scolastici. Insomma - se si escludono i congedi di maternità o le assenze «dedicate» a esami o a corsi di aggiornamento - quando un insegnante «diserta» l'aula lo fa per motivi gravi e concreti, sempre collegati a situazioni di difficoltà e di sofferenza - propria o altrui - o a eventi ufficialmente ammessi e documentati. Certo si sa che a scuola, come ovunque del resto, ci può essere chi si non si reca al lavoro anche in assenza di cause serie, chi bara. Ma la strada per reprimere questi comportamenti c'è e c'è sempre stata: massimo rigore nell'accertare gli abusi e nel reprimere atteggiamenti gravi che si traducono in un danno certo per tutti gli alunni. Tra l'assenza legittima e l'abuso o la scorrettezza, però, tertium non datur. E è per questo che non mi convince la proposta di Andrea Ichino, commentata da Alba Sasso e ribadita dallo stesso Ichino sul manifesto del 14 marzo. Se ho ben capito, ciò che in sostanza si propone è di penalizzare l'insegnante attraverso il pagamento di un maggiore o minore «premio assicurativo» contro il rischio di malattia, così collegando il livello del premio al numero delle assenze «totalizzate».
Nel ragionamento di Ichino ci sono, a mio parere, almeno due generalizzazioni quantomai arbitrarie. La prima: Ichino sembra dubitare del fatto che un insegnante possa «veramente» essere costretto a stare a casa. A differenza di tutti gli altri lavoratori e lavoratrici, l'insegnante non può e non deve ammalarsi e qualsiasi suo presunto acciacco va semplicemente ricondotto a pigrizia o negligenza. La seconda: Ichino dà per scontato che tutti gli insegnanti a nient'altro aspirerebbero se non che a guadagnare standosene tranquilli nelle proprie case. Ora, senza scomodare termini abusati o equivoci come quello di missione, possibile che Ichino pensi che gli insegnanti italiani abbiano così poca passione per il proprio lavoro e non comprenda come talvolta - lo attesta la mia personale esperienza di insegnante e di preside - siano veramente dispiaciuti di non poter andare a scuola per seguire i propri allievi?
Per non parlare della «guerra dei poveri» cui Ichino ricorre per dar corpo a quella che lui definisce contrapposizione tra il diritto all'assistenza del figlio (malato) di un insegnate e il diritto all'istruzione del figlio dell'operaio che la classe di quell'insegnante frequenta. Se il ragionamento fila, perché non estenderlo a tutte le categorie di lavoratori e lavoratrici? Che so, medici e pazienti, impiegati delle poste e pensionati, ferrovieri e pendolari? Ha dimenticato forse, Ichino, che le tutele a favore delle genitorialità non solo assolvono un fine sociale che nessuno mette in discussione ma che riguardano tutto il lavoro dipendente?
Non credo che i risultati delle indagini condotte nel North Carolina ci portino molto lontano, soprattutto se utilizzate per proporre ricette semplicistiche e affrettate. D'altronde sarebbe anche ora di smetterla di considerare gli Usa come un modello di elaborazione avanzata sui temi della scuola. Se è vero, infatti, che le ultime indagini sui sistemi scolastici di tutto il mondo - una per tutte, P.I.S.A - hanno giustamente evidenziato le carenze della scuola italiana, è altresì vero che le medesime indagini tagliano decisamente fuori dalle fasce alte della classifica la scuola Usa. Forse, anziché l'America, sarebbe meglio guardare alla Finlandia la cui scuola, prima nel mondo, da un unico obiettivo è animata: nessuno studente deve restare indietro. Ma questo, gli insegnanti italiani, già lo sanno.