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Manifesto: La pratica didattica del silenzio

rimettere in discussione concetti come apprendimento, soggetto, oggetto, relazione, errore eccetera, a partire dalle nostre pratiche ma riconsiderate attraverso gli effetti che provocano sugli studenti e su di noi

09/09/2007
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il manifesto

l'intervento

Giovanni Mancini *
Per chiunque abbia lavorato nella scuola coniugando quotidianamente insegnamenti, apprendimenti e ricerca non è facile rinunciare ai propri riferimenti ed elaborazioni teoriche, ma se «grande è il disordine sotto il cielo» non si può presumere di possedere l'eccellenza, ma praticare l'umiltà di non poter capire secondo modelli e paradigmi inefficaci e di avere bisogno di decostruire per costruire e ricostruire. E ciò può avvenire solo se accettiamo di rimettere in discussione concetti come apprendimento, soggetto, oggetto, relazione, errore eccetera, a partire dalle nostre pratiche ma riconsiderate attraverso gli effetti che provocano sugli studenti e su di noi. E questi si possono scoprire solo se si ammette che si mobilitano insieme sensazioni, emozioni, sentimenti, cognizioni, saperi, vissuti e solo se si pratica effettivamente l'osservazione da parte di tutti gli osservatori/osservati. «L'esperienza non è un fatto oggettivo» diceva più di qualcuno, e infatti a scuola non c'è più spazio per l'esperienza, che non può essere tale se privata dell'elaborazione, soprattutto collettiva. (Curioso come da anni a scuola tanto più si parla di autonomia e progettualità e tanto meno spazio hanno i giovani per costruirle; ma forse è giusto così, la scuola deve preparare per la vita, e così come gli è stata ridotta oggi...).
Mi sono dato tempo, una pratica del tempo da tempo impossibile a scuola per gli studenti, gli allievi, i ragazzi, i giovani. Tanta vana letteratura e tanta vana scienza: lo spazio mentale come spazio e tempo dell'elaborazione dell'esperienza, della differenza, dello scarto, di un sapere fondamentale e insostituibile non solo non praticato ma negato. Qui, per mettermi in gioco un po' più concretamente, mi permetto un esempio della mia esperienza: la pratica didattica del silenzio. Non un silenzio indotto o proposto come meditazione, ma il silenzio vissuto come pratica di elaborazione collettiva dopo avere ragionato insieme, pensato e ascoltato; riscoprendo il silenzio come spazio individuale e collettivo di elaborazione del sapere. 5, 10, 15 minuti e più di silenzio totale, in una classe di 20, 25 adolescenti di 15, 19 anni. Quando capita è sempre un'emozione grande e condivisa, come lo stupore e la consapevolezza di un legame insostituibile; del sapere e nel sapere. Il silenzio come spazio e tempo per conoscere e riconoscere il pensiero «altro», individuale, personale, collettivo, condiviso: vincoli insostituibili di un altro sapere. E così forse (e in altri modi certo) poter vedere meglio quale soggetto umano ci troviamo di fronte, e a essere; nel tempo in cui la tecnica (in tutte le sue accezioni, galimbertiane e non) non è più solo come cercare di scoprire (e di convivere) questa infinita cosa che è la mente, ma come disporre di effetti sconosciuti reificati.
Andare a cercare nei contesti specifici cosa vuol dire «crisi del simbolico», cosa vuol dire «espropriazione del linguaggio comunicativo», come si concretizzano nelle molteplicità relazionali (dei saperi e dei poteri); come vengono vissuti i loro effetti, nei loro effetti, altrimenti «l'espropriazione» rimane un concetto del piano intellettuale e basta, che ripropone compulsivamente nozioni estranee ai vissuti quotidiani. Negli ultimi due decenni di pensiero unico abbiamo subito e praticato, necessariamente e non, tali e tanti adattamenti da avere ridotto l'adolescenza (un termine già riduttivo in sé), l'età della curiosità, del conflitto e dell'apprendimento oppositivo (critico) per eccellenza, della creatività e degli entusiasmi, a sinonimo di stato patologico.
Una società, una civiltà che svuota e depriva la propria gioventù delle ricchezze migliori della propria età (ma per quanto tempo si può rimuovere che stiamo negandoci la parte «migliore» della nostra umanità) non è né di destra né di sinistra: è criminale.
Sapremmo trovare, noi di sinistra, nei loro contesti specifici (di studenti e giovani) in cosa consiste la differenza tra «oggettivamente possibile» e «realmente possibile»? Non che gli anni dopo il '68 e fino ai '70 ci fossero grandi possibilità, ma almeno si è respirato aria di possibilità. Come occupano il loro tempo i giovani a scuola e fuori, come possono scoprire e praticare le ricchezze di cui sopra? Si dice che una delle condizioni di base per la propria sopravvivenza di un sistema sociale sia garantire il mantenimento della struttura latente dei valori interiorizzati e riprodurne le motivazioni. Che vuole dire per generazioni così diverse? Come «spiegarglielo»? Non certo con la riproposizione dei propri strumenti e contenuti, cioè, come sempre, del proprio passato.
Ciò che ho scritto potrebbe essere rivolto contro ciò che sostengo, ma non è per questo che non mi soddisfa. Ma, ahimé, non ne possiamo fare a meno, e questo ci induce a cercare e a provare l'irrinunciabile piacere di rimanere vivi.
* insegnante