Iscriviti alla FLC CGIL

Home » Rassegna stampa » Rassegna stampa nazionale » Manifesto: Le povertà dell'Università italiana

Manifesto: Le povertà dell'Università italiana

occorre avere chiari alcuni fatti nel balletto di cifre che circolano in questi giorni

26/10/2008
Decrease text size Increase text size
il manifesto

Fabrizio Tonello
L'università italiana è malata e il movimento di studenti e docenti contro i tagli è più che giustificato, occorre però avere chiari alcuni fatti nel balletto di cifre che circolano in questi giorni. Per avere un'idea della disinformazione di fonte Gelmini-Brunetta-Tremonti, basti dire che il rapporto «L'università in cifre 2007», l'ultimo disponibile sul sito del ministero, indica, alla tavola 1.3.4, che in Italia i «ricercatori delle università» nel 2005 erano 37.073 e, a p. 19, si precisa: «Rispetto al 2004 sono aumentati di oltre il 31%». Peccato che, rifacendo le somme della tabella, si scopra che il totale non dà affatto 37.073 bensì 27.485. Il che significa che nel 2005 i ricercatori non erano affatto aumentati (men che meno del 31%) bensì diminuiti rispetto al 2004.
Altro caso: gli stipendi dei docenti. Le laute cifre citate dai giornali sono normalmente gli stipendi a fine carriera: la realtà è che in Italia gli stipendi sono inferiori di un quarto alla media Ocse e arrivno a poco più della metà degli stipendi dei professori tedeschi. Qualche cifra: un ricercatore appena nominato ha uno stipendio netto di poco più di 1.000 euro al mese, un professore associato tocca i 1.800, un ordinario i 2.600. E' solo dopo la conferma in ruolo che gli stipendi dei ricercatori lievitano fino a sfiorare i 1.800 euro e quelli degli associati i 2.300 euro, che non sembrano cifre così opulente per chi ha già lavorato almeno una quindicina d'anni all'università, sotto varie forme.
Il problema chiave dell'università italiana, di cui alla Gelmini non importa nulla, visto che vuole solo fare cassa sopprimendo posti e modificando gli scatti di anzianità, è l'incredibile lunghezza del percorso per entrarci, un percorso che, dopo la laurea, oscilla fra gli 8 e i 15 anni in posizioni sottopagate come i dottorati e gli assegni di ricerca. Oggi, il giovane promettente che sceglie di restare in Italia e tentare la carriera universitaria deve affrontare come minimo tre anni di dottorato, seguiti da una borsa post-dottorato e da altri quattro anni di assegni di ricerca, oltre a un periodo imprecisato come professore a contratto prima di vincere un posto da ricercatore (se è bravo e fortunato). Lo stesso ministero ci mostra nel grafico 1.4.4 del Rapporto 2007 che l'età mediana dell'ingresso in ruolo era nel 2003 di 39 anni (poi è leggermente scesa). Cioè si arriva a fare i ricercatori come «premio di metà carriera» invece che come posizione di ingresso, dalla quale poi chi non è sufficientemente motivato e dedito alla ricerca potrebbe anche uscire.
Il problema del reclutamento è tanto più urgente quanto si sa che, fra tre anni, potranno andare in pensione almeno 4.000 ordinari, 2.500 associati e 1.600 ricercatori, per un totale di circa 8.000 docenti, molti di più se tutti sceglieranno di andare in pensione quando ne hanno diritto, senza chiedere di restare in servizio fino al massimo di età consentito. Con 8-9.000 docenti in meno, molte università (in particolare i piccoli atenei) semplicemente chiudono: questa è la posta in gioco.
* Università di Padova