Iscriviti alla FLC CGIL

Home » Rassegna stampa » Rassegna stampa nazionale » Manifesto: Libertà a rischio

Manifesto: Libertà a rischio

L'incubo proprietario

17/04/2006
Decrease text size Increase text size
il manifesto

NORBERTO PATRIGNANI
Le varie scuole di pensiero che hanno analizzato l'innovazione hanno fatto emergere un punto comune: l'innovazione, la creazione di valore, la nascita di imprese innovative è possibile solo se esiste un humus, al di sopra del quale le idee migliori si trasformano in prodotti, servizi, nuovi modelli di business che poi si diffondono nella società con tutti i benefici sociali ed economici connessi. Questo humus possiamo chiamarlo ricerca di base, scienza condivisa, libero scambio delle idee, sfera della cooperazione e della collaborazione. Esso rappresenta uno dei principali valori del «bene pubblico» che, proprio in quanto tale, va difeso e protetto per riuscire a farlo ereditare alle generazioni future. Esempi molto generali di beni comuni: le grandi infrastrutture, il libero scambio di idee, l'Internet. Infatti la rete possiamo ormai considerarla, a tutti gli effetti, come parte integrante del pianeta («one planet, one net» diceva la CPSR tanti anni fa), anzi dobbiamo garantire l'accesso a tutti gli abitanti del pianeta (oggi l'80% ne è escluso) a questa risorsa preziosa per la diffusione della conoscenza e per la costruzione inclusiva di una società dell'informazione.
Se analizziamo attentamente da questo punto di vista le società più avanzate ed innovative, troveremo che la libera competizione, il libero mercato, portano dei frutti anche per le imprese private solo se tutto questo avviene al di sopra di un bene pubblico gestito in modo saggiamente cooperativo. Se invece analizziamo le società più arretrate, noteremo proprio un ribaltamento di questo approccio: troveremo che i beni collettivi non solo non sono gestiti con saggezza e cooperazione per preservarli per le future generazioni, ma vengono venduti, privatizzati: quando l'innovazione scarseggia ci si riduce a vendere i beni comuni. Esempi: la privatizzazione dell'acqua, di pezzi di territorio come spiagge ed arenili, delle grandi infrastrutture dei trasporti e dell'energia.
Quando però arriviamo al bene comune che chiamiamo Internet le cose si complicano tremendamente. In questo caso stiamo parlando di una infrastruttura globale dove il valore principale non sta tanto nella proprietà e gestione dei beni fisici che la costituiscono (che infatti sono di proprietà delle varie compagnie telefoniche che gestiscono le reti fisse e mobili), il valore principale sta nella capacità di questa rete di auto-regolarsi (infatti non esiste un controllo centralizzato), di trasmettere qualsiasi informazione da un punto ad un altro del pianeta senza entrare nel merito del contenuto del pacchetto di dati in transito, di autoconfigurarsi dinamicamente (se un percorso è interrotto, i router trovano dinamicamente una nuova strada), nel fondamentale principio di uguaglianza di qualsiasi computer collegato (visto dalla rete, il mio piccolo pc è esattamente uguale al più grande supercomputer). Ma tutti questi principi strutturali dell'Internet sono oggi in discussione. L'Internet per come l'abbiamo vista nascere (nel 1969) e crescere è a rischio. Cosa sta succedendo?
La scarsa capacità innovativa e la grande concentrazione in poche mani delle tratte principali dell'«acquedotto» Internet stanno minando alla base proprio il cuore della rete: l'assoluta trasparenza di chi trasporta i bit. Oggi, quando un pacchetto di bit viene immesso in rete viene letto solo alla destinazione (il modello end-to-end), non esiste un centro che governa il traffico, ogni bivio principale (router) non legge il contenuto del pacchetto, si preoccupa solo di leggere l'indirizzo del destinatario e di instradarlo in quella direzione il più velocemente possibile, scegliendo la via più promettente. In futuro potrebbe non essere più così. Un primo segnale di allarme si ebbe in Novembre, quando Ed Whitacre, amministratore delegato dell'At&t, dichiarò in un'intervista a Business Week: «perché dovremmo far usare i nostri 'tubi' ad altre aziende? Noi abbiamo fatto investimenti enormi ed ora altri (Google, Yahoo!, Vonage) si aspettano di usare queste reti per il loro business, queste sono storie». Venendo dai vertici di uno dei titani delle infrastrutture di rete, questa dichiarazione è subito rimbalzata nel cybesrpazio e fatto alzare le antenne a tutte le organizzazioni e persone che hanno a cuore Internet come bene pubblico e la neutralità della rete. La possibilità di aprire i pacchetti di bit da parte delle società di telecomunicazione (invece che limitarsi a trasportarli) apre scenari molto preoccupanti. Infatti perché vogliono questo? La convergenza sulla rete di qualunque tipo di contenuto multimediale, Tv, film, etc. ha stimolato l'appetito dei titani che a questo punto vogliono discriminare i contenuti per poterli vendere a prezzi diversi a consumatori diversi.
Immaginiamoci uno scenario dove, magari sotto elezioni, un multimilardario potesse dire alle società di telecomunicazione: «i miei pacchetti di bit hanno priorità su tutto», scordiamoci il libro fluire delle idee nell'infosfera, l'uso civico della rete, la nostra posta elettronica, i blog interattivi, i wiki collettivi. Insomma il medium democratico che abbiamo visto nascere e crescere. Sarebbe la fine di Internet. Purtroppo oggi questo è (non a caso) diventato anche tecnicamente possibile, infatti i router di nuova generazione vantano proprio questo tipo di prestazioni, promettendo la «qualità del servizio» necessaria per vendere contenuti di valore, e per gestire la transizione da una «basic highway» a un'autostrada a pagamento, personalizzata e a valore aggiunto.
La grande pressione politica dei titani della rete sui legislatori statunitensi (il Congresso e la FCC, l'authority per le telecomunicazioni) ha però scatenato un grande movimento di protesta e per la protezione della neutralità della rete, dal Center for Digital Democracy alla CPSR, dalla Consumers Union alla Free Press. Il 7 Febbraio scorso, Lawrence Lessig, una delle più brillanti menti che abbiamo sul pianeta, professore alla Stanford Law School, è intervenuto di persona ad una delle audizioni sulla Network Neutrality del Senato USA. Nel suo intervento ha illustrato il principio end-to-end alla base dell'Internet ed ha difeso la neutralità della rete come valore centrale per l'innovazione.
Tutto questo dibattito, a parte qualche articolo sul manifesto, dalle nostre parti è ancora poco sentito ma sarà bene cominciare ad informarsi (ed informare), a discuterne anche in vista del nuovo scenario politico italiano.
Ovviamente nessuno nega che vi siano ancora molti problemi irrisolti sull'Internet aperta che vogliamo difendere: la sua governance (chi controlla i domini?), lo spamming, la sicurezza delle informazioni, l'accesso universale (per disabili, anziani, abitanti in zone povere e sperdute del pianeta), ma questo non significa che la soluzione consista nel buttar via i suoi valori fondamentali. Anzi, proprio perché la complessità delle questioni è grande, essa andrebbe discussa ed approfondita prima di andare a toccare il sistema nervoso centrale della rete. Teniamo presente che ben due summit mondiali sui problemi globali della rete (World Summit Information Society 2003, a Ginevra e WSIS 2005 a Tunisi) non sono riusciti ad arrivare a grandi risultati, ma almeno il dibattito è aperto. In questo dibattito, vista la complessità in gioco, il contributo dei computer professional diventa fondamentale, essi devono farsi sentire perché i decisori da soli (e sotto la pressione delle fortissime lobby dei titani) rischiano di fare solo dei danni.
* Computer Professionals
for Social Responsibility (CPSR), Università Cattolica di Milano