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Manifesto-Pasticcio all'italiana sull'Università

Pasticcio all'italiana sull'Università Una risposta al quadro dell'Università fornito da Pietro Citati, e ripreso su diverse sponde nei giorni scorsi da Carlo Bernardini e da Aldo Schiavone, per m...

12/06/2004
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il manifesto

Pasticcio all'italiana sull'Università
Una risposta al quadro dell'Università fornito da Pietro Citati, e ripreso su diverse sponde nei giorni scorsi da Carlo Bernardini e da Aldo Schiavone, per mettere a fuoco quale sia l'ordine dei problemi che la riforma ha creato nei nostri atenei
REMO CESERANI
Quella che si sta svolgendo a spese dell'Università italiana è una gran bella gara all'incompetenza, e Pietro Citati ne è il primo interprete: biografo, saggista e giornalista di qualità middle brow, non ha mai fatto il professore universitario e conserva soltanto nel cuore, con grande nostalgia, i ricordi dell'Università di Pisa, della Scuola Normale, di alcuni professori prestigiosi, di tanti compagni. Un giorno ha raccolto in qualche salotto o su qualche terrazza romana le confidenze e le lamentele di alcuni professori della facoltà di lettere della Sapienza sulla famosa riforma universitaria del 3+2; si è fatto spiegare cosa sta avvenendo nella disastrata facoltà di lettere di Roma e ha deciso di scrivere - l'8 giugno su "Repubblica" - una delle sue interminabili articolesse, mescolando le lamentele dei professori incontrati con le tenere nostalgie dell'Università della sua giovinezza, e aggiungendo qualche sfogo nonché alcuni consigli snobistici ai tanti studenti fuori corso che frequentano la facoltà di lettere di Roma, vivacchiando in pensioncine nei dintorni. Studenti che meglio farebbero, secondo Citati, se decidessero da subito di fare i falegnami, i corniciai, gli elettricisti, anche perché i posti per insegnanti nelle scuole secondarie scarseggiano. Si direbbe che Citati voglia ignorare il fatto che, ormai, dalle facoltà di lettere escono laureati i quali si indirizzeranno, piuttosto, a mondi molto più ampi di quelli limitati ai confini della scuola: mondi che vanno dall'editoria alla televisione al cinema ai giornali ai laboratori della cultura. Con la sua lunghissima articolessa, Citati vorrebbe affrontare il problema della riforma dell'Università italiana ma finisce per limitarsi a parlare della facoltà di lettere, per poi restringe ulteriormente il campo alla Sapienza. Se la prende, innanzi tutto, con i due ultimi ministri dell'Università, Luigi Berlinguer e Letizia Moratti e con l'insieme dei componenti dei molti comitati di consulenza che hanno aiutato a preparare la legge di riforma e ad accompagnarne l'applicazione, definendoli "incompetentissimi". Ora, è difficile dare dell'incompetente al ministro Berlinguer, professore e ottimo rettore per tanti anni a Siena, preparato e deciso quanto il compianto ministro Ruberti, protagonista degli accordi con gli altri rettori europei per una graduale uniformazione dei diversi sistemi. Questo non vuol dire che gli incompetenti non possano fare errori e secondo me Berlinguer, così come il suo sottosegretario e il gruppo dei suoi consulenti, tutti competentissimi, di errori ne hanno fatti parecchi. Siamo stati in molti a denunciarli, anche su queste pagine: dall'incertezza se seguire modelli europei o modelli americani all'oscillazione fra scelte accentratrici e scelte di autonomia, dalla capitolazione di fronte alle corporazioni nella scelta delle forme di reclutamento alle defatiganti trattative e ai cedimenti di fronte alle pretese dei gruppi disciplinari decisi a difendere i loro territori, fino all'eccessivo accentramento dei piani didattici, e così via. Molti di noi hanno criticato, anche in modo feroce, il modo e le procedure con cui Berlinguer ha preparato le leggi di riforma e soprattutto con cui le ha gestite, insieme, a un sottosegretario e a un gruppo di consulenti di sicura competenza e di scarsa capacità e flessibilità politica. Il progetto di Berlinguer, del resto, si fondava su un lavoro preparatorio svolto da un gruppo di persone validissime, guidate da Guido Martinotti, che aveva elaborato alcune linee fondamentali di intervento, alle quali sarebbe opportuno cercare saggiamente di tornare. Invece, la ministra Moratti e i suoi consiglieri si stanno muovendo in direzione esattamente opposta, per fortuna senza troppa irruenza, ma limitandosi ad agire con (pessimi) provvedimenti settoriali.

Il fatto è che Letizia Moratti è stata paracadutata su un ministero di cui non sapeva niente e su cui si è lanciata con un piglio manageriale e semplificatorio che è il meno adatto a governare ambiti complessi come quelli della scuola e dell'università. La sua esperienza scolastica - a differenza di quella di Citati, che si è svolta in tempi lontani e in luoghi prestigiosi - fa quasi tenerezza: è una mescolanza di pia educazione presso le Orsoline e di elegante formazione presso un college americano per fanciulle bene. Se già Berlinguer aveva sbagliato adottando il metodo del compromesso con le corporazioni e i gruppi politici anziché quello del confronto con il mondo della cultura, la Moratti ha adottato strategie ancora peggiori. Non ha accettato alcun confronto (temo per mancanza di idee e per eccesso di convinzioni ideologiche) e affidandosi totalmente a un gruppo di consiglieri, di cui non si può non riconoscere la competenza e che sono tuttavia fra i più rigidi seguaci del liberismo economico spinto (da cui l'idea dell'Università come azienda e dell'educazione come mercato da destinarsi agli interessi privati) e insieme del pedagogismo più piattamente tecnico e funzionalistico (tutto americano d'origine, ma non dell'America di Dewey e di Bruner, bensì di centri impegnati ad applicare formulette didattiche). A peggiorare le cose per la ministra Moratti ci si è messa la politica economica del governo e del ministro Tremonti, che si è subito sposata con le tendenze semplificatorie e le aspirazioni privatistiche sue e dei suoi consulenti. Di qui le restrizioni agli investimenti nella ricerca, la crisi del Cnr, la scelta dei poli di eccellenza tecnologica: la combinazione tra la tendenza a impoverire i contenuti culturali dell'insegnamento e quella a restringere l'attività di ricerca è diventato un meccanismo micidiale, che rischia di stritolare la nostra università.

Competente in merito a tutti questi problemi, e in particolare a quelli delle facoltà scientifiche, è sicuramente Carlo Bernardini, il quale ha reagito alla provocazione di Citati con un intervento sdegnato sull'"Unità" di giovedì scorso (dimostrandosi - mi permetto di osservare - forse un po' meno di casa nelle cose letterarie, visti i giudizi entusiastici sulle opere di Citati). Competente è sicuramente anche Aldo Schiavone, che sulla "Repubblica" di ieri ha scritto un articolo accorato, in cui lamenta le posizioni prese da Citati, forse sviato da cattivi consiglieri. So che Citati penserà che quelli che scrivono sull'"Unità", o sul "Manifesto" (ma anche su "Repubblica", sul "Corriere" - come ha fatto qualche tempo fa Claudio Magris - sulle riviste specializzate, nei think tanks del Mulino, di Micromega, delle associazioni e, da qualche tempo, anche dei partiti e dei sindacati) sono tutti accecati dall'ideologia e non si sono accorti dell'assassinio perpetrato alla bella università d'antan. E invece si sbaglia. Il dibattito che si è svolto su questi giornali, a proposito della riforma, è stato pochissimo ideologico e invece molto consapevole dei rischi di disastro che ci troviamo di fronte, ma al tempo stesso attento ai cambiamenti nella società, ai rapporti con le altre università del mondo; è stato un dibattito molto tormentato e assai critico di aspetti importanti della riforma Berlinguer, spaventato dei guai che può combinare la ministra Moratti. Le rigidezze ideologiche sono, purtroppo, tutte dall'altra parte.