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Manifesto: Quei ragazzi salvati dal teatro

L'altra Scampia

03/11/2006
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il manifesto

«Scugnizzi» e rom Studenti ed evasori scolastici, tutti insieme in un progetto che li ha portati dalle periferie ai palcoscenici

Adriana Pollice
Napoli
Portare «l'arrevuoto» a Scampìa, mettere cioè sotto sopra il quartiere facendo esplodere l'arte nel cuore dell'epicentro della guerra di camorra. Marco Martinelli del Teatro delle Albe di Ravenna e il Teatro Mercadante di Napoli per il secondo anno si accingono a sconvolgere la teoria che vuole Napoli chiusa in quartieri e ceti sociali non comunicanti, non perché separati ma perché radicalmente altri gli uni agli altri, incompatibili.
«Quello a cui abbiamo partecipato è stata la messa in vita dello spettacolo ad opera dei ragazzi», lo scrittore Maurizio Braucci descrive così il percorso fatto insieme a una settantina di studenti della scuola media Carlo Levi e del liceo Elsa Morante di Scampìa, del liceo classico di Napoli Antonio Genovesi, di ragazzi che a scuola non vanno e quelli nomadi che fanno capo all'associazione Chi Rom e Chi No, che li ha portati a recitare la scorsa stagione Pace! di Aristofane all'auditorium di Scampìa e poi al Mercadante e al Teatro Argentina di Roma. Mondi inconciliabili che invece hanno formato una comunità che quest'anno tornerà in scena per il secondo movimento di un progetto triennale che, avendo trasformato i ragazzi in docenti, potrebbe diventare stabile. A vederli si intuisce a pelle l'orgoglio per quello che hanno fatto e la voglia di continuare. Alcuni si frequentano, la metropolitana li porta a da un capo all'altro della città, evadono da palazzi ostaggio degli spacciatori per arrivare al centro, «ci vediamo per andare a cinema - raccontano - per fare un po' di casino. Siamo diventati amici, non ci sentiamo chiattilli di Napoli o feccia di periferia».
«All'inizio al Genovesi ci ascoltavano con grande attenzione - racconta Martinelli - ma faticavano a far emergere l'energia, alla Carlo Levi nessuno ci ascoltava, neanche cinque minuti, ma l'energia era travolgente. Abbiamo ribattezzato la Carlo Levi l'uragano Katrina». Il quartiere delle «Vele» sembra una selva di cemento cresciuta in mezzo al niente. Esperimenti in calcestruzzo avrebbero dovuto diventare palazzi abitabili per il popolo dei terremotati dell'80, e invece sono il fondale sul quale si realizza lo spaccio a ciclo continuo. «Qua è pieno di tossici, io mi tengo lontano perché vanno fuori di testa. Quando si sta per strada bisogna stare attenti», raccontano. Ma attenti ci stanno anche i ragazzi del centro perché «la sera è pericoloso, come niente ti scippano o ti accoltellano per una dose». L'insicurezza, lo stare vigili, è una condizione comune. Così sparisce la diffidenza tra loro e anche per i rom: uno del campo ha un furgone con cui porta i più piccoli a scuola, con quello stesso furgone li accompagna alle prove «perché anche i nostri ragazzini ci tengono al teatro». Uno di loro vuole fare il guerriero «perché nella mia famiglia gli uomini sanno difendersi». E sanno difendersi anche quelli che a scuola non vanno perchè «la famiglia vuole che lavoro».
A Scampìa vive una fitta rete di associazioni e una popolazione di giovani in grado di recepire l'arte esattamente come i coetanei degli altri quartieri, ma più affamati, ipercinetici, iperreattivi. «Il testo dello spettacolo è stato elaborato dai ragazzi - racconta Braucci - a partire dal loro immaginario, dal loro linguaggio, dalla loro identità. Linguaggi diversi ma tutti entrati nella drammaturgia perché tutti parte della comunità». Costruendo i personaggi fanno rivivere il loro quotidiano incrostato dallo stresso immaginario trash della televisione, dagli stessi desideri per oggetti griffati, «ma se gratti via i comportamenti indotti - conclude Braucci - viene fuori la parte più vera di loro».