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Manifesto: SCUOLA, IL PASSATO CHE RITORNA

Alba Sasso

27/07/2008
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il manifesto

Con l'emendamento tagliaobbligo d'istruzione, infilato nel maxiemendamento del decreto Tremonti alla Camera, rischia di chiudersi un ciclo nella storia della scuola in Italia.
Un ciclo apertosi nel '62 con la scuola media dell'obbligo. Riforma di quelle importanti che caratterizzarono gli anni del primo centrosinistra in Italia, nata dall'idea che l'Italia, per trasformarsi da paese agricolo in paese industriale, dovesse puntare sulla crescita del livello di istruzione della maggior parte delle sue cittadine e dei suoi cittadini. Una fase in cui si puntava all'espansione della scolarità per tutti. E quell'espansione di fatto ci fu. Si passò dai 416.000 alunni della scuola secondaria nel 1950 ai 2.800.000 iscritti nel '91/92. La trasformazione fu profonda e positiva, anche se non fu consolidata da una riforma complessiva del sistema.
Ma negli anni '90 il tema dell'educazione divenne un terreno di discussione politica che superò i confini di un dibattito tra addetti ai lavori e all'interno dei singoli paesi. Lo stesso Bill Clinton segnalò come emergenza educativa la crisi profonda del sistema di educazione statunitense, Rapporto (1996) del ministero dell'istruzione, che rilevava come «negli Stati uniti un adulto su tre è funzionalmente o completamente analfabeta», anche dopo anni di scuola. E già dal '93 col Libro bianco sull'istruzione di Jacques Delors si affrontava il tema di un'Europa della libera circolazione delle idee e della cultura, non solo delle merci e della moneta. Si disegnò, in quegli anni, con la Conferenza di Lisbona un percorso mirato ad accrescere il livello di istruzione in ogni paese, a combattere la dispersione scolastica, ad aumentare il numero dei laureati e diplomati.
Era il momento anche per l'Italia di aumentare gli anni di scolarità obbligatoria. Luigi Berlinguer anticipò con uno stralcio, rispetto alla riforma dei cicli, l'elevamento dell'obbligo di istruzione fino al primo anno della scuola secondaria. Misura che ebbe i suoi primi effetti nell'aumento del numero dei ragazzi che continuavano gli studi nel percorso scolastico.
Con il governo Berlusconi del 2001 si tornò indietro, abolendo l'obbligo d'istruzione e sostituendolo con un più vago diritto/dovere: diminuivano gli anni di obbligo e si differenziavano i percorsi. O a scuola o nella formazione professionale. D'altra parte, come ebbe a dire qualche autorevole membro di quel governo, «perché il figlio dell'operaio non dovrebbe fare l'operaio?».
Col 2006, governo Prodi, si arriva all'elevamento di due anni lasciando la possibilità «fino alla messa a regime» di spenderli nei percorsi triennali di istruzione e formazione professionale già previsti da un morattiano decreto. Infine col decreto finanziario Tremonti approvato dalla Camera il 24 luglio e sicuramente blindato nel suo passaggio al Senato, di nuovo retromarcia. Nel testo, che abroga le norme precedenti, con una chiarezza, forse mai esplicitata finora, si afferma che l'obbligo d'istruzione si potrà spendere anche nei corsi di formazione professionale, quelli che ogni regione organizzerà con gli enti che vorrà. Una norma di bilancio - costa espandere la scolarità - ma insieme la scelta di una scuola che differenzia i suoi percorsi per liberarsi del peso di un'istruzione superiore aperta a tutti. Una scuola, quella disegnata dal decreto 112, che paga nel triennio, insieme a università e ricerca pubbliche, circa un quarto della complessiva (8 miliardi di euro) manovra finanziaria. Uno stato che si ritrae definitivamente dalla responsabilità di investire nel settore dell'educazione, affidandosi a un privato - le fondazioni - per ora inesistente (come nel caso dell'Università) o - come nel caso della scuola sempre all'affannosa ricerca di finanziamenti pubblici - neanche di buona qualità.
E d'altra parte questo è l'obiettivo di una linea politica che vede nella sussidiarietà e nella destrutturazione del sistema pubblico da un lato la salvezza per le casse dello stato e dall'altro il rilancio di un modello di organizzazione del sistema formativo elitario e selettivo. Un attacco alla Costituzione e insieme ai diritti sociali. Perché una manovra così regressiva che pagherannno le famiglie e anche il livello di civiltà del paese?
Perciò bisogna muoversi, riflettendo sugli errori fatti a cominciare dalla lenta ma inesorabile sottrazione di risorse al sistema formativo. Promuovendo ricerca e iniziativa su quanto occorre fare per rilanciare il diritto per tutti a un apprendimento di qualità.