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Manifesto: Università, il rischio del cannibalismo

Piace a molti la riforma universitaria all'esame del Senato. Soddisfa il mondo delle imprese, i rettori che sperano di avere più potere

12/06/2010
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il manifesto

Alessandro Monti*
Piace a molti la riforma universitaria all'esame del Senato. Soddisfa il mondo delle imprese, i rettori che sperano di avere più potere, ma nel governo l'unanimità è solo apparente: il Ministro dell'Economia, lesinando le già magre risorse, vuole evidenziarne le inefficienze per ricostruirlo ex novo; il Ministro dell'Istruzione, invece, punta ad aziendalizzare gli atenei con una governance che attenui prerogative e tutele del corpo accademico, riduca composizione e autonomia degli organi collegiali, accresca controlli ministeriali e presenza privata. Il faraonico disegno di legge (83 commi) con i suoi marchingegni dirigistici, se approvato così, consentirà ai due ministri di cogestire, «senza maggiori oneri per lo Stato», atenei intimoriti e impoveriti.
Non è possibile qui approfondire cause e responsabilità della «crisi» e rispondenza dei singoli articoli alle vere esigenze di sviluppo del sistema universitario, il rischio di «spedizione punitiva», anziché di rilancio, emerge però da un dettaglio non secondario: tra i «Principi ispiratori della riforma» (art.1) non figura il progresso della scienza: dimenticanza o scelta deliberata? Certo è che il governo ridimensiona ruolo e numero degli atenei pubblici attraverso gli Accordi di programma che incentivano chiusure e fusioni di atenei e facoltà e «messa in mobilità» dei docenti (art.3). Equiparando però gli atenei a fabbriche che il padrone può vendere, o di cui cedere rami d'azienda non profittevoli, si finisce per degradare la formazione a merce e violare il principio costituzionale della libertà di insegnamento: «i professori sono inamovibili e non prestano giuramento»(art.8, Dpr. 382/80). Invece di lasciare aperte domanda e offerta di istruzione, il governo altera le regole del gioco favorendo forme di cannibalismo tra atenei di cui sottovaluta costi scientifici, sociali e culturali, sulla scia della «macelleria accademica» avviata con la Finanziaria 2008.
Emblematico l'Accordo di programma tra Miur e atenei di Camerino e Macerata che, prospettato come intervento per razionalizzare l'offerta formativa marchigiana ma costruito al di fuori di un disegno strategico complessivo e senza analisi costi-benefici, non include gli atenei di Ancona e Urbino, né la regione Marche, competente in materia di diritto allo studio. La storica Facoltà di Giurisprudenza di Camerino (di Betti, di Bobbio) e i suoi corsi vengono così «mangiati» dall'ateneo di Macerata. Viene cancellato un corso in Scienze politiche, attivo da oltre 40 anni nella Facoltà di Giurisprudenza, istituita a Camerino dal 1336, solo perché ne esiste un altro a Macerata. Né vale l'alta soddisfazione degli utenti, accertata da indagini che mostrano come il corso da eliminare sia il più gradito dai laureati e loro genitori rispetto a tutti i corsi dell'ateneo, inclusi quelli delle facoltà scientifiche che assorbiranno le risorse risparmiate. Chiudendo Scienze politiche, però, viene travolta anche la laurea in Giurisprudenza che, menomata nella capacità di offrire insegnamenti integrativi, viene posta in condizioni di non più competere: l'inevitabile emorragia di iscritti ne favorirà la fine.
L'urgenza di fare cassa spiega scarsa trasparenza, anomalie procedurali e disinvoltura con le quali i vertici dell'ateneo camerte rinunciano a parti qualificanti dell'offerta formativa, provocando sconcerto di studenti, docenti, cittadini e ricorsi al Capo dello Stato. Per il territorio, infatti, si profila una perdita secca di capitale scientifico e culturale: dalla biblioteca umanistica di 210 mila volumi destinata a restare inutilizzata, alle reti di relazioni intellettuali alimentate dai docenti «in mobilità» (economisti, storici, sociologi, politologi) destinate a disperdersi.
È augurabile che Governo e Parlamento cambino la riforma nelle parti in contrasto con le attese della popolazione studentesca e l'interesse generale. Invece di cumulare vincoli e prescrizioni, sarebbe meglio sburocratizzare puntando alla qualità della formazione, ad esempio abolendo le «lauree spezzate» (3+2) e i loro incongrui ordinamenti didattici, causa prima della débacle del sistema, e ripristinando (come per Giurisprudenza) le lauree a ciclo unico, assai più apprezzate da studenti e mondo del lavoro. Ne gioverebbe il livello civile e culturale del Paese.
* già componente del Consiglio universitario nazionale, autore di «Indagine sul declino dell'università italiana», Gangemi Ed.