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Manifesto: Università, un'alternativa è possibile

Giorgio Parisi *

26/11/2008
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il manifesto

Giorgio Parisi *

I provvedimenti dell'attuale governo, in particolare la legge 133 e la finanziaria 2009, sono gravemente dannosi per l'università e la ricerca, anche se il loro effetto è stato parzialmente attenuato dall'ultimo decreto legge, in discussione al Senato. Tuttavia l'opposizione a questi provvedimenti non ci deve far dimenticare l'urgente necessità di cambiamenti strutturali. Uno dei più gravi fenomeni patologici dell'università italiana è la presenza di un gran numero di «giovani» ricercatori, spesso molto bravi e da troppi anni in attesa di uscire dal precariato.
Sono convinto che l'essenza di un regime democratico si misuri nelle opportunità che esso è in grado di offrire ai suoi cittadini e nella possibilità che ciascuno ha di confrontarsi con esse. Nelle carriere accademiche le generazioni rischiano di essere fortemente svantaggiate. Questo lede in modo insanabile il diritto che tutti i giovani devono avere di realizzare le loro scelte, se queste sono commensurabili alle loro capacità.
È necessario procedere subito ad un piano di reclutamento di ricercatore articolato su un lungo periodo. Per evitare pericolose oscillazioni nel flusso di nuove leve, bisogna finanziare per i prossimi dieci anni un flusso costante di duemila nuove posizioni l'anno di ricercatore (oltre al normale turn-over per i pensionamenti, ridotto del 50 per cento dalla legge 133). Queste posizioni devono essere assegnate garantendo la qualità delle assunzioni.
Tutto ciò non basta. Le difficoltà non sono solo dovute ad una scarsità dei fondi. I problemi derivano anche dal modo in cui i pochi finanziamenti sono gestiti. La ricerca pubblica e l'università sono diventate un forte campo di attrazione per il potere clientelare, sia politico che personale, e i due poteri si stanno oggi alleando. Le conseguenze di questa intrusione politico-clientelare sono state in molti casi devastanti, con gravissime ricadute sulla qualità della didattica e della ricerca. Le università hanno un certo grado di autonomia, ma non c'è il necessario contrappeso, quello che in inglese si chiama accountability, ovvero la responsabilità personale delle decisioni, che comporta di dover pagare le scelte sbagliate. Oggi, se una persona poco meritevole diventa ricercatore, nessuno paga. Bisogna dunque instaurare un sistema di controlli e di verifiche del comportamento dell'università, che sia in grado premiare i comportamenti virtuosi, introducendo un sistema appropriato di incentivi e fare in modo che gli interessi del singolo professore siano sempre meno in contrasto con l'interesse collettivo.
Anche le attuali norme concorsuali possono (e devono) essere migliorate. In generale sarebbe bene evitare di avere commissari di concorso meno esperti dei candidati. È facile introdurre un correttivo, almeno nelle discipline scientifiche: in questi settori è possibile determinare indicatori automatici della qualità della ricerca svolta (un metodo facile anche se approssimativo è contare quante volte il nome della persona in questione compare sul web o su Google Scholar). Utilizzare questi indicatori potrebbe essere pericoloso, ma forse sono utili per richiedere che i membri di una commissione di concorso abbiano un indicatore superiore a quello della parte più alta dei candidati. Una semplice norma di questo tipo eviterebbe il realizzarsi di situazioni scandalose. Tuttavia la vera salvezza dell'università sta nella valutazione, fatta seriamente, senza riguardi per i potenti e per i loro amici, e con conseguenze concrete sui finanziamenti. Il governo Prodi aveva istituito un'Agenzia nazionale per la valutazione universitaria e della ricerca, l'Anvur. Il nuovo governo avrebbe dovuto iniziare una procedura amministrativa per realizzarla, ma tutto è rimasto fermo.
Non bisogna limitarsi all'attività dei singoli dipartimenti universitari, ma anche valutare le assunzioni dei ricercatori effettuate negli ultimi anni. Per esempio, si possono istituire commissioni nazionali che a tre anni dalla presa di servizio dei ricercatori li valutino e ne selezionino una percentuale appropriata (per esempio il 50 percento). Le università corrispondenti ai ricercatori selezionati riceveranno finanziamenti addizionali per fare ulteriori chiamate di ricercatori. La scelta delle commissioni nazionali che devono compiere questo delicatissimo lavoro di selezione è cruciale e bisogna fare di tutto per assicurarne l'indipendenza. In questo modo sarebbe vantaggioso per le università assumere le persone più capaci e si realizzerebbe un circolo virtuoso.
Anche la qualità della didattica in molti casi è del tutto insoddisfacente. Bisogna effettuare una seria valutazione, che coinvolga studenti ed ex-studenti e che sia gestita da persone esperte per capire cosa sta funzionando e cosa no. Bisogna instaurare su scala nazionale una valutazione attendibile del valore didattico degli insegnanti, ma non si potrà fare finché gli studenti non verranno consultati seriamente. In altri paesi è procedura standard far riempire agli studenti questionari sui corsi, chiedendo loro di elencare pregi e difetti e facendo assegnare punteggi differenziali secondo i vari parametri: chiarezza didattica, interesse della materia, possibilità di avere spiegazioni. Una tale valutazione pubblica, anche senza conseguenze pratiche dirette, darebbe un meritato riconoscimento agli insegnanti che si dedicano con successo al loro lavoro e se ne stimolerebbe l'amor proprio di altri, che non si rendono conto dei loro difetti.
Far funzionare bene l'università pubblica ha anche un significato politico molto profondo. Lo Stato deve essere in grado di erogare servizi di buona qualità a tutti i cittadini, in maniera da garantire un livello minimo per tutti. Lo stato sociale oggi è sotto attacco e non è difficile capire il motivo: se si guarda alla qualità del servizio erogato in molti ospedali pubblici, si è invogliati a pensare che i soldi dati allo Stato per questo scopo sarebbero stati investiti molto meglio nel privato. La sinistra può vincere la sua battaglia solo se dimostra che i servizi pubblici, a partire dall'università, possono essere gestiti con la stessa efficacia di quelli privati e che la parola «pubblico» non è sinonimo di «scadente».
Per ottenere questo risultato è necessario che i cittadini percepiscano concretamente che le strutture pubbliche sono al loro servizio, che la loro opinione su quello che funziona e su quello che va cambiato è importante, che contano qualcosa nel processo decisionale, mentre oggi hanno la sensazione contraria. Non bisogna mai dimenticare che gli utenti sono i più qualificati per osservare i disservizi e proporre cambiamenti. Organizzare la valutazione dei servizi pubblici, dei funzionari pubblici, con l'aiuto dei cittadini e di esperti non di parte, è un passo obbligato per migliorare questo paese. L'università potrebbe essere il luogo ideale per incominciare a realizzare questo processo.
* Fisico teorico, professore e membro della National Academy of Sciences