Iscriviti alla FLC CGIL

Home » Rassegna stampa » Rassegna stampa nazionale » Manifesto: Via 18 mila docenti, l'istruzione a pezzi

Manifesto: Via 18 mila docenti, l'istruzione a pezzi

GELMINI Tagli per 3,2 miliardi di euro

13/03/2010
Decrease text size Increase text size
il manifesto

Roberto Ciccarelli
Del federalismo fiscale si offrono da tempo le più varie interpretazioni, ma prima della pubblicazione del Rapporto sulla scuola in Italia del 2010 da parte della Fondazione Giovanni Agnelli (Laterza, euro 20, pp. 214) non era stato ancora calcolato il suo impatto sull'organizzazione della formazione scolastica. Si apprende così che i tagli stabiliti dai ministri Tremonti e Gelmini con la legge 133 porteranno a un risparmio per circa 3,2 miliardi di euro nel 2012, di cui almeno 2 miliardi realizzati nel Mezzogiorno. Una misura drastica che impone un analogo ridimensionamento del personale docente di 18 mila unità necessaria per avvicinarsi alla nozione di fabbisogno propria del federalismo fiscale. Una misura che rischia di ridefinire radicalmente la vita della scuola in base ai parametri delle regioni italiane più virtuose.
La spesa pubblica varia già oggi di regione in regione. Al sud viene destinata una quota senz'altro superiore che al nord, in media il 4%, con il picco del 6,8 in Calabria, contro il 2,2 della Lombardia e il 2,3 dell'Emilia Romagna. Un simile ridimensionamento del personale docente, oltre che della spesa ordinaria, andrebbe senz'altro a incidere sul rendimento scolastico degli studenti, che registra un andamento opposto alla spesa. Nel 2006 un'indagine Ocse-Pisa ha dimostrato che il nostro paese è afflitto da gravi disuguaglianze territoriali. È come se gli studenti meridionali fossero in ritardo di un anno e mezzo nei loro percorsi scolastici rispetto ai loro pari del nord, soprattutto nelle materie scientifiche. Senza considerare l'analisi prodotta dall'Isfol-Plus secondo la quale esiste uno zoccolo duro del 20% della popolazione tra i 20 e i 24 anni che non riesce ad andare al di là della licenza media, con punte del 42% nel nord-ovest, seguito dal 38 del sud. Il tasso di abbandono, anche tra gli studenti non italiani (l'8%), è in continuo aumento, il 30,3%, consolidando la tendenza di una scuola che ha punte di eccellenza nel rendimento, ma mantiene i classici filtri della selezione di classe nell'accesso ai licei, riservando ai professionali un trattamento dequalificante, coerentemente con la vecchia impostazione della scuola gentiliana. Da una parte i lavoratori della conoscenza destinati ad occupare ruoli di concetto e le professioni liberali, dall'altra i lavoratori manuali o i tecnici destinati ai posti in cucina. Un'impostazione che dimostra una resistenza disumana del modello, a dispetto della riconosciuta esigenza di garantire una mobilità sociale e una libertà di apprendimento che vanno in controtendenza.
Non tranquillizza, in questo rapporto della Fondazione Agnelli, nemmeno il consiglio al ministero dell'Istruzione di evitare l'idea di anticipare la scelta dell'indirizzo formativo a 15 anni, non solo perché è in contrasto con il parere della Commissione Europea, ma per garantire all'apprendimento una maggiore equità ed efficacia. Le soluzioni proposte non sembrano garantire l'equilibrio in un paese che si conferma spaccato a metà, con enormi differenze territoriali all'interno delle macro-regioni con le quali da sempre lo si descrive.
In questo contesto, un'applicazione cieca dei criteri del federalismo fiscale rischia di favorire le regioni - e le micro-comunità di eccellenza al loro interno - che già da tempo fanno da locomotiva nell'impossibile scalata alle classifiche internazionali sulla produttività. Non basta evidentemente chiedere ammortizzatori sociali per gli insegnanti "tagliati". Difficile pensare che una norma simile alla "salva precari" del 2009 sia minimamente in grado di affrontare una crisi sociale, e personale, di tali dimensioni. Gli insegnanti saranno pure «disponibili al cambiamento», come si legge ancora nel rapporto, ma sarebbe meglio capire a quali condizioni. Certo, aumentare lo stipendio perché sono tra i più sottopagati in Europa, e forse anche in nome del "merito", ma è difficile accettare l'idea che una simile valutazione avverrebbe al costo di un taglio dei giovani precari usciti dalle ultime Sis, come dei loro colleghi strutturati da più tempo nelle graduatorie. Le retoriche del cambiamento abbondano in questo paese. È urgente però iniziare a chiedersi da oggi a chi convengono.