Manifesto: Vittoria laica
In questo nostro Paese sempre più schiacciato tra Papi e Papa, la sentenza del Tar del Lazio che, accogliendo i ricorsi presentati, ha dichiarato che il prof di religione non può partecipare a pieno titolo agli scrutini e che l'insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica non può avere determinazioni del credito scolastico, è senza dubbio una piccola grande vittoria laica, che arriva assolutamente inaspettata
Giuseppe Caliceti
In questo nostro Paese sempre più schiacciato tra Papi e Papa, la sentenza del Tar del Lazio che, accogliendo i ricorsi presentati, ha dichiarato che il prof di religione non può partecipare a pieno titolo agli scrutini e che l'insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica non può avere determinazioni del credito scolastico, è senza dubbio una piccola grande vittoria laica, che arriva assolutamente inaspettata per almeno due motivi.
Primo: perché in Italia agli insegnanti di religione spettano un'attenzione e un trattamento di riguardo imparagonabili a quello dei docenti di tante altre materie. Anche le loro assunzioni, per fare un esempio, risultano più regolari. Forse anche perché per insegnare nella scuola pubblica devono avere il placet del Vaticano, che di fatto li seleziona e li sceglie. Secondo: perché nella nostra scuola, da sempre, anche l'educazione cattolica è considerata materia differente da ogni altra. Nonostante l'Italia sia sempre più un Paese multietnico e nelle nostre classi ci siano studenti di culture e religioni differenti. Basti pensare che il ministro dell'Istruzione Gelmini ha recentemente ordinato di cambiare il giudizio sulle schede di valutazione da discorsivo a numerico per tutte le materie con l'eccezione, appunto, dell'educazione cattolica.
Le parole del Tar del Lazio risultano ancora più sorprendenti di quelle dell'Invalsi, l'Istituto Nazionale della Valutazione Scolastica che qualche giorno fa, con un gioco di prestigio degno di Magamaghella, ha capovolto i risultati ottenuti attraverso i suoi test sottoposti a fine anno agli studenti italiani perché al nord risultavano troppi asini e al sud e al centro troppo pochi. Recita la sentenza: «L'attribuzione di un credito formativo ad una scelta di carattere religioso degli studenti e dei loro genitori, quale quella di avvalersi dell'insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, dà luogo ad una precisa forma di discriminazione, dato che lo Stato italiano non assicura la possibilità per tutti i cittadini di conseguire un credito formativo nelle proprie confessioni o per chi dichiara di non professare alcuna religione, in Etica morale pubblica». Le parole sono proprio queste: «Assoluta» e «discriminazione». Più chiaro di così si muore.
Eppure siamo sicuri che nell'Italia spappolata e gongolante di oggi, tutta tette e crisi, tale decisione non passerà certo inosservata. La questione è questa: se i giudici, facendo menzione del principio della laicità dello stato, affermano che «sul piano giuridico un insegnamento di carattere etico e religioso, strettamente attinente alla fede individuale, non può assolutamente essere oggetto di una valutazione sul piano del profitto scolastico», chi potrà dire il contrario senza ledere il principio di laicità? Vedrete che qualcuno ci proverà. Anche se i giudici spiegano a tutti gli italiani, con estrema semplicità e fermezza, che una cosa sarebbe magari l'educazione alla storia delle religioni e un'altra sono invece la professione di fede e l'educazione alla religione cattolica, qualcuno protesterà. Chissà se lo faranno anche i vescovi italiani, che sembrano sempre più insofferenti verso Papi e le politiche simil-razziste della Lega. Sarebbe un peccato.