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Tutti al liceo. Le iscrizioni scolastiche e l’Italia che cambia

Di Marina Boscaino

26/03/2013
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Il Miur ha pubblicato i dati relativi alle iscrizioni per il prossimo anno scolastico. Come è noto quest’anno – per la prima volta – le iscrizioni sono state compilate online. Il nostro Paese sta cambiando aspetto, anche dal punto di vista delle preferenze di studenti e famiglie per un tipo di scuola superiore piuttosto che per un altro. E ancora una volta dobbiamo interrogarci su questo cambiamento, comprenderne i motivi più profondi, intuirne le conseguenze.

A parte il calo del Liceo Classico, che da qualche anno procede inarrestabile (rispetto allo scorso anno si è verificato un decremento di iscrizioni pari allo 0.5%), tutti gli altri licei aumentano il numero di iscritti, totalizzando globalmente un aumento di quasi 2 punti percentuali rispetto al 2011-12. Il dato è notevolmente in crescita, se lo si compara diacronicamente con quanto accaduto negli ultimi 15 anni, durante i quali la quota sul totale degli iscritti ai licei sul totale degli iscritti al primo anno delle superiori è aumentata di circa 12 punti percentuali.

Tengono le iscrizioni all’istituto tecnico, con un aumento rispetto allo scorso anno dello 0,3%. Il dato certamente più allarmante è il crollo verticale dell’istruzione professionale, che dal 21,6% dello scorso anno passa all’attuale 19,6%, assecondando un trend inaugurato anni fa con l’entrata in vigore della cosiddetta “riforma Gelmini” che, con la legge 133/08, ha imposto a quel segmento della scuola superiore il maggior peso di tagli, nonché di impoverimento culturale. Si aggiunga che il “federalismo possibile”, concretizzato con la Riforma del Titolo V della Costituzione (che, con la legge costituzionale 3/2001 ha attribuito alle regioni ampie potestà legislative – di natura concorrente con lo Stato – in materia di gestione e organizzazione del sistema scolastico, ma di natura esclusiva per ciò che riguarda istruzione e formazione professionale) ha indebolito ulteriormente l’istruzione professionale stessa, configurando di fatto tanti sistemi quanti sono le regioni italiane, con forti disomogeneità ed opportunità differenti tra cittadini dello stesso Paese. Un danno notevole, se si pensa al fatto che in quella parte dell’istruzione superiore confluiscono la maggior parte del disagio sociale, dei migranti e della diversabilità. Se si pensa, ancora, che da quella parte deriva il massimo della dispersione e del ritardo scolastici. Un’istruzione professionale all’altezza della determinazione di conoscenze e competenze adeguate per affrontare il mondo del lavoro, come dimostra la storia del nostro Paese dalla metà degli anni ’50 agli anni ’60, costituisce una risorsa economica, sociale e politica d’importanza inestimabile. Invece il percorso che abbiamo intrapreso va in direzione esattamente opposta.

Si aggiunga un’altra considerazione: sono di pochi giorni fa i dati pubblicati dal Cun (Consiglio Universitario Nazionale) relativi al decremento di immatricolazioni del 17% in 8 anni accademici (non si iscrivono, in particolare, i meno abbienti, gli studenti provenienti dal tecnico e dal professionale). E un’indagine Istat che evidenzia l’impennata di giovani laureati senza lavoro, con una crescita del 28% nello scorso anno rispetto al 2011 e quasi del 43% rispetto al 2008, anno di inizio della crisi e degli interventi di “razionalizzazione e semplificazione” (leggi tagli draconiani) su scuola e università da parte del governo Berlusconi; oltre al tasso di disoccupazione generale dell’11,2% registrato lo scorso dicembre.

Considerando i dati delle iscrizioni, confluirà sui licei quasi il 50% della popolazione scolastica di 14 anni. Alcune domande: come sarà possibile far fronte – dal punto di vista culturale, specialmente – in una scuola fortemente depauperata, ad una domanda così massiccia ed eterogenea, se non prevedendo un abbassamento dei livelli o – viceversa – una selezione molto più consistente in termini numerici, che si traduce in costi per lo Stato e in insuccesso, ritardo, dispersione, e frustrazione per i singoli?

Tradotto altrimenti: la scelta del liceo corrisponde effettivamente ad un reale innalzamento delle competenze degli alunni (difficile da credere, se si tengono in conto risultati dei test internazionali ma, soprattutto, le drastiche riduzioni di personale, offerta formativa, opportunità derivate dai tagli); o, viceversa, si tratta di una scelta determinata dal maggiore impoverimento riservato ai segmenti non liceali della scuola superiore?

Ancora: essendo il liceo non professionalizzante (prevedendo, cioè, una continuazione degli studi da parte di chi lo frequenta) non si rischia, considerati dati di immatricolazioni, disoccupazione tra i laureati, impoverimento degli atenei, il dato allarmante dell’abbandono dell’università e, soprattutto, la bassa posizione che gli italiani occupano tra i Paesi Ocse quanto a laurea e dottorato, non si rischia – dicevo – di aumentare in un ritardo esponenziale il tempo di disoccupazione dei giovani delle future generazioni, indipendentemente dalle congiunture economiche?

È corretto interpretare da questi numeri – nella criticissima situazione generale da ultima spiaggia, si salvi chi può – la conferma di destini sociali anche attraverso gli strumenti che più di tutti dovrebbero garantire il principio di uguaglianza? Sono domande – al solito – destinate quasi certamente a rimanere senza risposta: saranno i fatti, le evidenze (speriamo non irreversibili) a parlare. Quel che è certo è che il tentativo di combattere l’abbandono universitario attraverso l’istituzione del 3+2, che doveva consentire ai meno capaci di conseguire un titolo relativamente più professionalizzante e meno qualificante, si dimostra vano se, contemporaneamente, si abbassa il livello della scuola in generale e delle superiori in particolare: questa è stata, e tutto – anche i dati delle iscrizioni – lascia presumere che questa sarà la direzione.

Infine: non avrebbe più senso mettere mano al nostro sistema scolastico non in termini di taglio di spesa pubblica, come si è fatto negli ultimi anni, ma di investimento economico e culturale su tutta la scuola superiore, restituendo dignità a tutte le sue declinazioni e mettendo tutti nelle condizioni di sviluppare realmente al meglio le proprie potenzialità nel contatto con una scuola statale tutta idonea ad assolvere a questo compito costituzionale?