Messa "Subito via dall’università chi pilota i concorsi La vera rivoluzione è cooptare i migliori"
L’intervista alla ministra
Corrado Zunino
ROMA — Al videoforum di Repubblica , "Mala e buona università", la ministra Maria Cristina Messa dice: «Le storie di cattivi concorsi pubblici e inchieste di magistratura che ho letto nell’inchiesta Agnese nel Paese dei baroni non devono essere sottovalutate, devono essere studiate e condannate, ma non rappresentano l’intera università italiana».
Ministra, ma nei confronti di un commissario di concorso o di un capo dipartimento che pilota una prova che cosa può fare lo Stato?
«Gli atenei devono avere una maggiore autonomia nella scelta dei migliori, le responsabilità sono troppo diffuse e alla fine di nessuno.
Chi sbaglia o recluta male deve uscire dal sistema, deve essere destituito».
È un’affermazione importante.
Firmerà un decreto per far sì che questo avvenga?
«Il ministro dell’Università e della Ricerca deve fare delle proposte, incentivare con i finanziamenti, poi deve intervenire il Parlamento. Tutta la società, direi».
I lettori di "Repubblica" chiedono: ci sono rettori e responsabili di dipartimento che fanno quello che vogliono sul reclutamento e sulla gestione di intere facoltà. Esami farsa a calciatori miliardari a Perugia, sette dipartimenti decapitati dalla Procura a Catania, 2,8 milioni di euro non utilizzati a fini pubblici a Foggia. È arrivato il momento di mettere in discussione l’autonomia degli atenei italiani?
«L’autonomia è un bene che ha prodotto più vantaggi che svantaggi, un bene costitutivo che non va toccato perché garantisce la libertà dell’insegnamento. L’autonomia ha consentito al sistema universitario italiano di restare il settimo nel mondo per pubblicazioni scientifiche anche in un momento in cui i finanziamenti erano scarsi. I ricercatori italiani sono bravi e capaci e il sistema bandisce ogni anno tra 2.300 e 3.200 concorsi, una realtà complessa».
Un terzo di questi concorsi negli ultimi tre anni sono stati contestati.
Ci dica, costituirà il ministero parte civile nei confronti dell’Università di Catania?
«Non lo farò. Credo nella rinascita di quell’ateneo, ora guidato da uno
scienziato».
Sempre più università non ottemperano alle indicazioni della magistratura amministrativa. È normale che un’istituzione dello Stato non risponda a una sentenza?
«A volte le università si difendono sbagliando, altre volte ritengono di avere ragione e, quindi, la loro difesa è perlomeno legittima. Troppe volte il meccanismo di scelta dei concorsi non è chiaro, in altre è semplicemente scorretto e preordinato. Vorrei anche dire, però, che un concorso è difficile in sé. Io prima di diventare professore ordinario ne avrò fatti dieci».
Come dovrebbero cambiare i concorsi italiani, ministra?
«Le falle principali sono nel metodo di abilitazione e nei bandi locali. Oggi il sistema è confuso tra l’abilitazione esterna, i rettori che non entrano nei contenuti della prova, i dipartimenti che possono fare scelte di cui poi non si prendono la responsabilità. La vera rivoluzione arriverà quando ci ispireremo alle pratiche realizzate all’estero. Si devono identificare i candidati migliori, le figure che possono coprire un’area, avviare un sistema di cooptazione a un livello molto alto. E poi avere commissioni allargate al mondo esterno, all’industria, all’estero. I commissari devono essere eccellenti per giudicare candidati eccellenti. A volte in alcuni atenei prevale una cultura localistica».
Si possono utilizzare i finanziamenti ministeriali per guidare le buone pratiche concorsuali?
«Sì, attraverso la distribuzione dei fondi possiamo spingere le università ad attuare politiche migliori».
Il reclutamento italiano funziona?
«Oggi no. Nella prima tornata di abilitazione, 2012-2013, siamo riusciti a chiamare in cattedra il 50 per cento di chi era idoneo. Nella seconda solo il 25 per cento, nella terza il 4 per cento. Abbiamo 40 mila abilitati alla docenza, un esercito, che non riesce a entrare in università. In Parlamento stiamo cambiando il pre-ruolo, che è il passaggio precedente all’ottenimento di una cattedra, ma dobbiamo instaurare chiamate dirette per professori e ricercatori da un’università all’altra e dall’estero. E dobbiamo sbloccare gli avanzamenti interni, fermi dalla Legge Gelmini. Il nostro sistema di reclutamento non è più attuale».
I soldi europei del Recovery Fund sono inferiori alle promesse?
«Li dobbiamo contare tutti insieme i finanziamenti e scopriremmo che l’università dispone di 15 miliardi. Sono più preoccupata da come li spenderemo».