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Messaggero-ANCHE DALL'AMERICA È FUGA DI "CERVELLI"

ANCHE DALL'AMERICA È FUGA DI "CERVELLI" di ENRICO PEDRAZZI IMPROVVISAMENTE si scopre che la scienza americana, una delle icone assolute degli ultimi 60 anni di storia mondiale, è ...

19/09/2004
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Il Messaggero

ANCHE DALL'AMERICA È FUGA DI "CERVELLI"
di ENRICO PEDRAZZI
IMPROVVISAMENTE si scopre che la scienza americana, una delle icone assolute degli ultimi 60 anni di storia mondiale, è in crisi. L'America si guarda dentro e scopre che la vecchia, antipatica Europa fa i cellulari migliori e gli aerei passeggeri più venduti. E che le sta sottraendo una risorsa fondamentale, il "sangue" del suo grande, efficiente organismo: i quadri scientifici provenienti dai paesi poveri. In un solo anno le difficoltà burocratiche, le restrizioni decise per la sicurezza dopo l'11 settembre, hanno più che dimezzato la concessione di visti per i ricercatori provenienti dall'estero. I migliori ricercatori stranieri sembrano oggi preferire i lidi europei (ma non in Italia).
E questo è un salasso pesantissimo per la ricerca scientifica e tecnologica americana. Come in tutti i paesi occidentali, infatti, anche gli Usa soffrono da tempo una carenza crescente di iscritti e laureati nelle materie scientifiche. La soluzione, per un'economia forte come l'americana, è stata da sempre quella di drenare cervelli da tutto il mondo, filtrando i migliori e formandoli nei suoi laboratori.
Ora questo flusso si inaridisce. E non solo perché vi sono le restrizioni di sicurezza che impediscono persino a relatori di grandi convegni di intervenire se si svolgono sul suolo americano. Ma anche perché paesi tradizionalmente serbatoio di cervelli, come la Cina (protagonista di un boom che sta riscrivendo l'economia globale), stanno richiamando in patria i quadri migliori, allettandoli con offerte che mostrano di funzionare molto bene.
Nella crisi americana vi possono essere anche scelte di politica economica, di strategie di sviluppo. Ed ecco il quadro di fondo: la scienza americana non brilla più come una stella unica e assoluta. Anche per i ricercatori Usa.
Abbiamo visto una cosa simile ai tempi della guerra del Vietnam. Io mi trovavo allora negli Stati Uniti e vedevo il clima opprimente di quegli anni spingere i ricercatori più giovani e brillanti se non ad andarsene (ma molti lo facevano) almeno a sognare di farlo. Ma non c'è paragone con la situazione di oggi. Allora infatti l'economia era in crescita, lo sviluppo tecnologico era tumultuoso e vi era comunque una tendenza chiara a un rafforzamento dell'apparato scientifico del paese. Oggi tutto sembra più pesante, gravato da un intreccio tra politica internazionale, terrorismo, insicurezza, rallentamento della ripresa economica.
Non sono in grado di dire quanto potrà durare questa crisi, ma so che per ora il grande apparato scientifico-tecnologico americano è in grado di reggere, almeno per qualche anno.
Sta accadendo però che, contemporaneamente, quell'Europa che ha lo stesso investimento pubblico (ma molto meno privato) in ricerca degli Stati Uniti sta collezionando città-simbolo come Salo, in Finlandia, o Stoccolma, Tolosa, Amburgo, Londra, dove la ricerca scientifica è a livelli sempre più alti. La Scandinavia, in particolare, sta diventando una punta di lancia della scienza europea.
Certo, da noi nessuno ha buttato giù la Tour Eiffel o il grattacielo della Bce. Ma alcune economie nazionali, soprattutto quelle tedesca, nonostante tutto, la francese e l'inglese, stanno macinando innovazione. E sono in grado di assorbire cervelli dai paesi del Terzo Mondo, rappresentando un'alternativa reale agli Usa. Non ci possono essere dubbi: se si diventa un polo di attrazione per la ricerca, lo sviluppo economico seguirà.
Ora, non illudiamoci: anche l'Europa soffre una drammatica carenza di iscritti e laureati alle facoltà scientifiche. Tanto che in Germania, Francia e Inghilterra sono sempre di più i quadri intellettuali a tutti i livelli (dagli insegnanti agli ingegneri) che provengono da economie emergenti come l'India o il Pakistan. Ma per ora si fa quello che per anni hanno fatto gli americani: si importa.
Ed è già un segno di buona salute, come abbiamo visto. Purtroppo, in Italia invece non si vede ancora nulla di tutto questo. Noi, nonostante si abbia pochissimi iscritti e laureati nelle materie scientifiche e tecnologiche, esportiamo cervelli. Segno che la nostra economia, il nostro sistema produttivo e formativo, è ben lontano dalla buona salute.
Anzi, misurato con il termometro dell'innovazione, è decisamente febbricitante. Perché non c'è competitività senza ricerca, e per fortuna sembra che questo sia sempre più presente nella coscienza del paese, come hanno ripetuto il Presidente della Repubblica e quello di Confindustria, che ancora l'altro ieri l'ha definita la priorità assoluta.
*Presidente Conferenza dei Presidi delle Facoltà di Scienze Italiane