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Messaggero: Annunci ad effetto, riforme mancate

fare i riformatori è un mestiere arduo e che varrebbe la pena considerarlo una difficile professione e non una maschera per agitare i talk show o le conferenze stampa con qualche annuncio ad effetto

22/10/2009
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Il Messaggero

di PAOLO POMBENI

Se è lecito, chi scrive può raccontare un episodio accadutogli: anni fa un allora esperto del ministero voleva introdurre anche la civiltà dei Maya nel programma di storia delle scuole medie, manifestando le mie perplessità, perché non vedevo dove i poveri professori avrebbero attinto le competenze per intervenire in maniera credibile su una materia non proprio semplice, rispose che agli insegnanti «bastava documentarsi».
Naturalmente la storia delle riforme universitarie è altrettanto piena di questi esempi. Sono dodici anni che si fanno e si disfano i curricula dei corsi di studio (Penelope con la sua tela era una dilettante al confronto dei poveretti che hanno dovuto sorbirsi queste fatiche): arriva sempre un insieme di regole astratte dal ministero e dal Cun, inspiegabili ai non addetti ai lavori, dove si mettono vincoli e paletti senza tenere minimamente conto di quale possa essere la situazione reale su cui si dovrà calare la riforma. Detto banalmente: senza pensare per esempio che per coprire corsi che non c’erano ci vorrebbero risorse nuove e che per impedire che questi nuovi carichi si sommino semplicemente con il permanere di quelli vecchi andrebbe previsto cosa fare di chi non è più rispondente ai nuovi parametri.
Non abbiamo nessuna intenzione di negare che ci siano abusi e talora autentiche malversazioni nella distribuzione delle materie, accese o spente non di rado più per interessi delle corporazioni docenti che per necessità formative degli studenti. Solo che se non si vuol creare il caos bisogna tenerne conto e individuare gli strumenti per intervenire su quelle storture concrete, non disegnare in astratto il modello del corso che si ritiene perfetto.
È anche troppo facile ricorrere alla solita immagine della montagna che partorisce il topolino, ma annunci roboanti di soluzioni che poi non diventano realtà danno solo impulso al cinismo in cui si radica il degrado del “tutto cambi perché tutto resti come prima”. Prendiamo, sempre per restare nel campo dell’università, il problema della riforma dei concorsi: è stata annunciata decine di volte negli ultimi anni, ogni volta con l’invenzione di marchingegni fantastici per impedire inquinamenti e nepotismi, e non solo non si è ancora approdati ad una soluzione legislativa, ma si continuano a bandire nuovi posti (proprio in questi giorni una nuova infornata di posti da ricercatore) senza che si sappia se questi potranno essere assegnati con norme diverse da quelle attuali che sono state svillaneggiate ampiamente.
Non scriviamo certo queste cose per sostenere la pessima abitudine, molto radicata in questo Paese, di considerare i problemi così aggrovigliati e insolubili che allora è meglio limitarsi, secondo il famoso motto di un personaggio del Manzoni, a «sopire e troncare, troncare e sopire». Vogliamo però dire che fare i riformatori è un mestiere arduo e che varrebbe la pena considerarlo una difficile professione e non una maschera per agitare i talk show o le conferenze stampa con qualche annuncio ad effetto