Messaggero: «Così ho sprecato soldi e tempo per quella riga sul curriculum»
Dalle eccellenze di Luiss e Bocconi ai corsi-farsa, ecco i racconti di tanti studenti tornati sui banchi
di STEFANIA SPARACO
ROMA - Alcuni la laurea ce l’hanno in tasca, per altri è in arrivo, ma in entrambi i casi gli studenti italiani già pensano alla specializzazione oltre l’università. Sono poco meno di 27000 infatti i neo dottori che, non paghi della corona d’alloro, decidono di frequentare un master. Perché è verificato che avere in curriculum un’alta specializzazione, in tanti casi, fa la differenza. La necessità di “specializzarsi” sta trainando il mercato del master verso una crescita costante: il consorzio Almalaurea, Osservatorio Statistico dell’Università di Bologna, indica che, a un anno dalla discussione della tesi, il 14% di 190.000 laureati sceglie di iscriversi a un master. E le proposte didattiche avanzate da atenei e istituti privati sono passati dai 491 corsi del 2001 ai quasi 3000 del 2008. Del medesimo elenco fanno parte sia i master veramente qualificanti sia corsi nati sugli ultimi trend lavorativi. Di certo un MBA, Master in Business Administration, conseguito dopo un anno passato alla Bocconi, alla Luiss o all’università americana per cervelloni di Stanford, offre garanzie lavorative di gran lunga maggiori rispetto al corso da un mese e mezzo in Marketing del formaggio di Fossa. Come conferma Davide Cefis, “cacciatore di teste” della Eric Salmon & Partners, agenzia specializzata in consulenza alle aziende nelle risorse umane e nella ricerca di personale dirigente: «La presenza di un buon master nel cv ha senza dubbio un determinato peso, nella selezione di un candidato giovane; altrimenti vengono presi in considerazione altri parametri, a partire dall’esperienza lavorativa, soprattutto se la selezione riguarda un futuro dirigente».
Maria Cristina, 29 anni, romana, lavora allo sportello di un famoso gruppo bancario. In tanti sgomiterebbero per un posto del genere, ma lei quel banco dietro il vetro lo odia. In effetti alla sua laurea in Lingue i conti correnti risultano indigesti. Ma tant’è, si deve lavorare. Con la sua amata attività di traduttrice, ci guadagna abbastanza per una tinta dal parrucchiere e un giro al pub, prima che si cominci a notare la ricrescita. Eppure Maria Cristina ha un curriculum così titolato che nulla le impedirebbe di fare il lavoro dei suoi sogni: consulente per l’estero di Marketing e Commercio Internazionale. Dopo la laurea ha frequentato un master ad hoc, organizzato a Bruxelles da un istituto di Bari. Costo del corso, poco meno di 5 mila euro, alloggio e biglietti aerei inclusi. Non male come tariffa, considerando che la media dei corsi post laurea parte dai 10 mila euro in su. Dopo oltre un anno dal conseguimento dell’attestato di master, recapitatole a casa piegato in busta e anche un po’ stropicciato, Maria Cristina è stata assunta in banca. Tra cambiali e bonifici, l’agognato mondo del marketing sembra ancora lontano. «Ho speso soldi e tempo, e dopo, con lo stage non retribuito, ci ho rimesso il triplo. Non so se la righina in più aggiunta sul cv, per fare volume, del master sia servito per il mio attuale lavoro. Ma tenderei ad escluderlo», dice disillusa.
In seguito alla parte d’aula, gli istituti garantiscono alla quasi totalità degli iscritti, l’ammissione ad uno stage in partnership con una delle aziende sponsorizzate dagli enti organizzatori. Ma sembra che la teoria sia lontana dalla pratica. «Lo stage che la scuola mi ha mandato a fare era inerente al marketing. Di nome ma non di fatto» continua Maria Cristina «Mi sarei dovuta occupare di marketing, telemarketing e sostegno al commerciale. Di fatto…ho continuato l’attività di traduttrice iniziata prima del master». Esperienza analoga quella di Sofia, 31 anni, casertana: «Il master mi è senza dubbio servito per l’ottenimento del mio primo contratto a progetto, mentre assolutamente da dimenticare è l’esperienza dello stage: ero stata scaricata nella pseudo azienda dove sono capitata, ove di stage non avevano mai sentito parlare, solo per fare un favore a uno dei docenti».
La questione stage, tanto osannata dagli istituti organizzatori dei corsi, si rivela in realtà un grosso grattacapo, causato spesso dal gran numero di iscritti che si cerca di piazzare dove capita. E l’attenzione alle esigenze del corsista passa in secondo piano. Le aziende, comunque, tendono a rimarcare fortemente la “fornitura” di stage come il vero e proprio fiore all’occhiello dell’intero pacchetto: la Business School de Il sole 24 Ore riferisce un placement del 90% a stage concluso, media sostenuta, in misura addirittura maggiore, da quasi tutti gli istituti.
Eppure, nonostante in tanti sostengano che ne avrebbero fatto tranquillamente a meno, le iscrizioni continuano ad accumularsi negli archivi delle scuole. Secondo le indagini del Censis, il fatturato derivante dal mercato dei master supera i 180 milioni di euro, con una spesa media di 4800 euro a studente. A scegliere l’alta specializzazione sono soprattutto studenti del sud con in tasca lauree in Letteratura o Lingue, di solito considerate meno appetibili dal mondo del lavoro, le cui iscrizioni incidono per il 20% del totale. Al contrario, il master si rivela una scelta di nicchia per coloro che provengono da facoltà tecnico scientifiche. Questi ultimi infatti non riterrebbero necessario il valore aggiunto di un master in ambito lavorativo, poiché sufficientemente appagati dalla laurea: spiccano in tal senso i laureati del gruppo chimico-farmaceutico, ingegneria e medicina, la cui incidenza sulle iscrizioni ai corsi post laura non supera il 6,5%. Dato confermato dall’orientamento di Luana, 23 anni, studentessa di Farmacia: «Voglio laurearmi ma dopo niente master! Il mio obiettivo è lavorare in una farmacia. Non penso che un master possa garantirmelo in misura maggiore rispetto all’università». Per tanti studenti, comunque, quella “righina in più sul curriculum” rimane appetibile. «Io penso che servano più nel cv che nelle reali competenze» sostiene Marco, 19 anni, studente di Giurisprudenza, «Sono consigliabili se possono completare un determinato percorso di studi, altrimenti s’impara poco. Che senso ha farsi un corso in economia se si è laureati in Lettere Classiche? Nel curriculum però hanno il loro peso. Quindi se si hanno i soldi per comprarsene uno è consigliabile farli». In pratica si tratterebbe, secondo Marco, di titoli a pagamento con poca sostanza. Oltre al business di fondo, i detrattori del master puntano il dito contro i professori reclutati per i corsi: un esercito di 34mila docenti, in gran parte universitari per i quali l’unico interesse sarebbe arrotondare lo stipendio.
Ad ogni modo, il punto cruciale resta sempre lo stesso: conseguito l’attestato, esistono effettive possibilità di facilitare l’ingresso al lavoro? Le ricerche svolte dall’Osservatorio statistico di Bologna sull’utilità occupazionale dei master attestano che «non si registra nessuna significativa differenza tra coloro che hanno terminato un master rispetto ai colleghi che non hanno concluso un’esperienza analoga». In alcuni settori il master aumenta le probabilità di lavoro; in altri non fa differenza o peggio ancora rimanda ulteriormente l’ingresso nel mercato del lavoro. Secondo la ricerca, chi possiede un master viene, per così dire, apprezzato, ma il vero valore di quanto appreso acquista un peso se correlato ad un’effettiva esperienza sul campo. Formulazione che concorda con l’esperienza di Carmen, 28 anni, laureata in Scienze della Comunicazione e un master in linea con i suoi studi, oggi alla cassa cambiali di una banca: «E’ sconsigliabile fare master lunghi, perché oggi le aziende ti vogliono laureata a 22 anni, meglio se col master, ma pure con esperienza lavorativa». E di tali geni da guinnes, la tradizione italica, tanto attaccata ai sudati pezzi di carta, è ancora poco provvista.