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Messaggero: Il ritardo storico che pesa sul paese

Confindustria presenta la sua ricerca sui giovani, il sistema educativo e il Paese. La coincidenza può essere occasionale, ma i dati che il rapporto presenta non sono affatto confortanti

29/10/2009
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Il Messaggero

di PAOLO POMBENI

FINALMENTE il progetto di riforma dell’università è nero su bianco. Un progetto ambizioso, che vuole rivedere un po’ tutto, dal sistema di governance dell’università ai meccanismi di reclutamento, dai rapporti fra gli Atenei e il mondo esterno agli obiettivi di formazione professionale che l’educazione superiore dovrebbe porsi.
Il testo approda in Consiglio dei ministri però nello stesso giorno in cui Confindustria presenta la sua ricerca sui giovani, il sistema educativo e il Paese. La coincidenza può essere occasionale, ma i dati che il rapporto presenta non sono affatto confortanti: siamo una società di vecchi, incapace di promuovere e motivare i giovani, con un sistema educativo che in buona sostanza funziona male, anche se sono stati fatti dei passi avanti che sfuggono alla conoscenza del grande pubblico. È molto significativo che questa inchiesta sia stata prodotta dall’associazione degli industriali, perché testimonia oltre ogni ragionevole dubbio che la riforma di scuola e università non riguarda solo la “cultura” (che peraltro non è una dimensione così secondaria), ma coinvolge il problema complessivo dello sviluppo del sistema Paese.
Partiamo dai dati positivi, che non vanno sottovalutati. Il numero dei laureati è molto cresciuto negli ultimi dieci anni (non sappiamo però se e quanto sia cresciuta la loro qualità): siamo passati dal 19% al 24% della popolazione, così come è, nonostante tutto, calata la disoccupazione giovanile (dal 22% al 14%) sebbene il livello attuale risulti ancora troppo alto. L’impiego di personale qualificato è in crescita: oggi il 44% dei neoassunti è laureato.
A fronte di questo rimane il fatto che siamo un Paese di vecchi: oggi gli over 65 sono il 20% della popolazione, mentre gli under 15 si fermano al 14%, il che significa un invecchiamento preoccupante. Aggiungiamoci che abbiamo la classe insegnante più vecchia d’Europa (appena l’1% è sotto i trent’anni), che l’età media dei ricercatori universitari si colloca sui 40 anni, che appena l’8% dei nostri parlamentari ha meno di 40 anni.
Può la riforma dell’università rispondere, o almeno avviare una risposta a questo ritardo che pesa sullo sviluppo del nostro sistema? La risposta non può essere semplice, a meno di non fermarci alla superficie delle proposte, cioè, per dirla banalmente, alle buone intenzioni. Le linee portanti di quanto propone il ministro Gelmini sono più che condivisibili: riforma dei sistemi di governo separando consigli di amministrazione e senato accademico, promozione del merito con premi anche in termini stipendiali a chi vale e produce di più, sistema di valutazione e monitoraggio della produzione di docenti e Atenei, selezioni negli accessi alle carriere accademiche sottratte all’arbitrio dei localismi (ci vorrà previamente un vaglio di idoneità nazionale).
Il disegno di legge è però piuttosto farraginoso, pieno di commi e sottocommi, entro cui si disperdono quasi in un gioco di specchi le riforme proposte. Soprattutto si tratta, ma non poteva essere altrimenti, appunto di un disegno di legge, cioè di una proposta che deve fare un iter parlamentare presumibilmente lungo, durante il quale saranno possibili molti colpi di mano, l’inserzione di altri commi e codicilli per smussare e forse snaturare. Il clima di competizione politica senza freni non aiuterà certo a trovare un’intesa di buon senso, soprattutto nel momento in cui se si vuole razionalizzare veramente il sistema si dovranno pestare molti calli, sia delle spocchiosità accademiche che dei campanilismi prosperati negli ultimi anni.
L’altro problema fondamentale è il tempo necessario per mettere a regime una macchina di questa “novità”, perché, vorremmo fosse chiaro, se la legge sarà approvata sostanzialmente così com’è ci vorrà un decennio perché il nostro sistema si adegui. Basti pensare al tempo necessario per mettere in piedi e far funzionare bene il sistema di valutazione degli Atenei o per riformare il meccanismo del reclutamento, o per trovare davvero quel personale specializzato che possa sedere nei consigli di amministrazione (senza finire nella italica “invenzione ad hoc degli esperti”, secondo la nota boutade di Togliatti per cui “l’ente crea l’esistente”).
Non sappiamo se siamo in grado di aspettare dieci anni, mentre in gran parte d’Europa le riforme si sono già quantomeno avviate (in più d’un caso sono a regime), i centri di eccellenza ci sono e funzionano (non sono robette sulla carta come da noi), la competizione per garantirsi i migliori è già in atto. Altrove si è puntato invece che sulla riforma del sistema in generale, oppure accanto a quella, sulla creazione sperimentale di nuovi centri di eccellenza, che, impiantandosi da zero, potevano sin da subito anticipare le riforme e fare da traino per abbattere le resistenze corporative. Lì si entra per concorso pubblico con commissioni giudicatrici internazionali, non per nomina ministeriale e cooptazione.
È infatti realismo da riformatori sapere che il problema vero è proprio come battere quel genere di resistenze, che sono, ovviamente, resistenze per sopravvivere in posizioni di potere che una riforma in profondità spazzerebbe via.
Basti pensare a due scogli di fronte ai quali ci si arena da tempo. Il primo è l’abolizione del valore legale del titolo di studio, che costringerebbe le università a non sottrarsi alla valutazione ed a comportamenti virtuosi nel reclutamento e nell’insegnamento se non vogliono perdere studenti. Il secondo, che attira meno l’attenzione, ma che è altrettanto importante per lo sviluppo del Paese, è la riforma che si attende da anni degli Istituti tecnici e in genere dell’istruzione professionale: un motore essenziale per lo sviluppo e, sia consentito dirlo, quello che ben gestito potrebbe essere anche un buon canale di integrazione e avanzamento sociale per una parte non piccola dell’immigrazione di seconda e terza generazione.
Su tutti i temi che abbiamo elencato, una discussione forte e nel merito dei problemi sarebbe la benvenuta e darebbe il segnale di un Paese che prende sul serio il momento storico che attraversa.