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Messaggero: «Puntare tutto su ricerca e scuola»

Reichlin: crisi ancora lunga, alle delocalizzazioni si reagisce con la qualità

08/02/2010
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Il Messaggero

LUCA CIFONI

ROMA Puntare sulla diversificazione, sull’innovazione, e quindi sulla qualità dell’istruzione scolastica e universitaria. Di fronte all’impatto dei fenomeni di delocalizzazione, è questa la ricetta per l’Italia suggerita da Pietro Reichlin, docente di Economia all’Università Luiss.
Grandi multinazionali minacciano di abbandonare il nostro Paese. Colpa della crisi o fenomeno ineluttabile?
«Certo le difficoltà congiunturali sono comuni a tutti. All’interno dell’Europa c’è una relativa convergenza dei salari, per cui sotto questo aspetto non ci sarebbe una competizione fortissima. Però il nostro Paese risulta meno competitivo per ragioni che vanno al di là del puro e semplice costo del lavoro. Basta pensare al Mezzogiorno, dove la produttività media è bassa, e ci sono anche problemi per così dire di ambiente imprenditoriale».
Ma la delocalizzazione è una tendenza inevitabile?
«Beh, soprattutto in questa fase si cercano sinergie, alleanze, accordi internazionali che portino a lavorare su diverse piazze. D’altra parte stiamo parlando di imprese che si trovano in difficoltà e quindi devono cercare in qualche modo di reagire».
Il risultato però è che gli stabilimenti chiudono, si perdono posti di lavoro.
«È vero, però è anche vero che da noi c’è storicamente un eccesso di influenza della politica. Se un impianto industriale non è produttivo non serve a nessuno tenerlo in piedi. Servirebbe invece un sistema di ammortizzatori sociali davvero universale, che possa sostenere quei lavoratori».
Questa è una riforma che più o meno tutti giudicano opportuna, ma che per il momento è rinviata a tempi migliori. Che altro si può fare per reagire?
«Dovremmo cercare di diversificare la produzione, di sviluppare tecnologie che altri non sono in grado di realizzare. In parte si fa, in alcune aree del Paese, ad esempio nel Nord-Est. Ma serve qualcosa di più. E qui si pone il grande tema della scuola, dell’università, della ricerca. È questo il salto di qualità che bisogna fare. L’alternativa è il declino. Riusciamo ancora a fare alcune cose bene perché abbiamo una certa tradizione, una certa storia. Però bisogna guardare anche al futuro. In uno scenario futuro, è verosimile pensare che un’azienda delocalizzi alcuni impianti, mantenendo però il “cervello” nel Paese di origine. Ma allora ci vogliono buoni ingegneri, buoni tecnici, buoni imprenditori. E per avere queste professionalità, lo ripeto, il sistema formativo è cruciale».
Lei parla di una sfida per il medio-lungo periodo. Intanto però la crisi sembra tutt’altro che archiviata, soprattutto per quanto riguarda l’impatto sull’occupazione.
«L’occupazione reagisce sempre con ritardo alla congiuntura. Certo stavolta sembra che il ritardo sia ancora più marcato del solito. Le imprese continuano ad avere difficoltà nel trovare credito e questo aspetto si fa sentire. La ripresa che c’è stata finora è stata fatta tutta con aumenti di produttività, senza miglioramenti dell’occupazione. Per quanto riguarda l’Italia bisogna anche ricordare il forte peso della manifattura. Probabilmente i progressi in campo occupazionale possono venire più dal settore dei servizi».
C’è qualche buona notizia?
«Sì, la tenuta dei Paesi in via di sviluppo. Da loro può arrivare una spinta per tutti gli altri».