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Messaggero: Troppi stranieri, tolgo mio figlio. Io rest oqui, è una scuola di vita

Il Caso Pisacane, 80% di alunni immigrati

25/03/2009
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Il Messaggero

di FRANCESCA NUNBERG

ROMA - Prendete due mamme e cercate di ascoltarle senza che la bilancia penda, come fossero due facce di un contrasto non componibile. Dice la prima: «Perché se piange mia figlia la chiamano “fontana di Trevi” e se piange un bambino straniero gli si fanno tutti attorno a dire “poverino”? Le lacrime dei bambini non sono tutte uguali?». Dice la seconda: «Ma non sarà che se anche gli italiani sanno poco italiano la colpa è del fatto che non leggono e che in questo quartiere mancano librerie, cinema e teatri, piuttosto che l’elevata presenza di immigrati, peraltro tutti di seconda generazione?».

Trattasi di dolente questione: deve esserci o no un limite agli alunni stranieri nelle scuole italiane? La Gelmini ribadisce il sì e fissa un tetto del 30%. E’ necessaria un’integrazione “assistita” (senza arrivare a classi separate e test di ammissione) o si può lasciare corso alle capacità dei singoli, insegnanti, dirigenti, genitori? Perfino bambini: fa testo quella pulce di sei anni che alla madre incerta se un nome cinese nella lista della classe fosse di maschio o femmina, rispose stizzita “femmina”, citandole peraltro il perfetto corrispettivo maschile.

Le due mamme appartengono alla scuola Carlo Pisacane di Tor Pignattara, finita sotto i riflettori per la presenza record di stranieri, ottanta per cento, e l’annunciato ritiro di alcuni alunni italiani per “insostenibilità” della situazione. La mamma numero uno si chiama Antonella Sbarassa, fa parte del “Comitato per l’integrazione”, sua figlia l’anno prossimo cambierà scuola. «Ci sono troppe anomalie - dice - Senza tornare alle storie del presepe multietnico con la moschea e ai cappellini per i bambini fatti coi manifesti di estrema sinistra, alcune cose proprio non vanno. Perché i nostri figli non devono celebrare Natale e Pasqua, mentre i festeggiamenti del Ramadan vengono sbandierati con tanto clamore? L’anno scorso li hanno costretti a imparare un canto in arabo; accettabilissimo, ma... La scuola vince premi e fa progetti, dice la preside, sì ma i progetti non vanno in porto perché le famiglie straniere non partecipano, non sono aperte, non vengono nemmeno ai compleanni. I loro figli non parlano italiano al livello dei nostri, appena usciti da scuola tornano alla loro lingua, idem per i film e i programmi tv. La didattica non è sufficiente a colmare le lacune che poi saltano fuori alle medie. Abbiamo proposto noi alla Gelmini la quota del 30%».

La mamma numero due è Paola Piovesan, figlia in prima elementare: «Ho scelto questa scuola anche se non mi spettava, perchè mi sembrava la migliore in assoluto. Sono passati sei mesi dall’inizio e in classe tutti leggono, scrivono, fanno le addizioni a tre cifre; le difficoltà didattiche sono quelle fisiologiche, i bambini parlano italiano, litigano in italiano, pure i cinesi tra loro. Mia figlia fa ginnastica artistica con le sue amichette: una bengalese, una romena, una polacca. Non mi ha mai chiesto com’è che quello ha la pelle così scura, ma ho sentito una sua coetanea che vive altrove domandare: questa è la scuola degli zingari?».

Non lo è e la difende con le unghie e con i denti la dirigente, Nunzia Marciano, che ha faticato in questi mesi a far capire a genitori, tv e giornalisti che la sua «è una scuola normale». Magari non proprio, se su 384 alunni gli stranieri sono 213, di 24 nazionalità diverse, ma che lei riesca a definire questa una «prassi di ordinaria complessità», depone certamente a suo merito. E spiega: «I bambini socializzano, imparano l’italiano, mantengono il livello anche alle medie. Le accuse che ci fanno sono infondate: qui abbiamo laboratori di musica, di teatro, linguistici, plastici; facciamo gite e campi scuola, tutto. Se passa il tetto come si fa? Non lo so. Bisognerà forse accorpare le scuole, trovare altre soluzioni, aumentare le risorse per gli istituti con più stranieri. Come si dice? Molte culture, più cultura. Prima c’erano i calabresi, ora ci sono i bengalesi; ma se abitano a via della Maranella, qui davanti, come li posso rifiutare?».

Tetto no, tetto invece sì. «Condivido pienamente la scelta delle quote - spiega Paolo Mazzoli, dirigente dell’Angelo Mauri a Montesacro - La Pisacane rappresenta un’eccezione, ma molte altre scuole a Roma sono intorno al 45-50% di stranieri. Troppi. La media deve essere intorno al 20, diciamo 3-4 per classe. L’integrazione si sviluppa meglio se non sono soli, né in una classe tutta di stranieri, dove si crea una babele che gli insegnanti non controllano. Finora il problema era stato risolto con le “compresenze”, il doppio maestro serviva anche a quello, a formare un pacchetto di ore settimanali da destinare agli stranieri almeno per i primi due mesi. Però il tetto rischia di essere solo un’operazione del governo se ai Comuni non vengono fornite le risorse per distribuire i bambini. Bisognerebbe fare come per i nomadi, accompagnarli con i pulmini; altrimenti se la scuola più vicina non li accetta e loro non hanno modo di raggiungerne un’altra, comincia l’evasione scolastica».

Rischio banlieue da evitare come la peste anche secondo un’altra persona che di immigrati e scuole se ne intende. Marina Murat insegna Economia internazionale all’università di Modena e insieme a Davide Ferrari, docente di Statistica, ha fatto uno studio sul rendimento scolastico degli alunni stranieri. «L’obiettivo qual è? - si chiede - Farli andare bene a scuola o evitare che creino problemi? Se è il primo, allora bisogna mettere in campo politiche su più fronti. Primo, i genitori: i bambini più a rischio sono quelli delle famiglie dove non si parla l’italiano in casa, soprattutto il ruolo della mamma è cruciale, se non può seguirli nei compiti né parlare con gli insegnanti; come avviene nei Paesi più sviluppati, bisognerebbe dare incentivi a chi segue lezioni di italiano, magari sussidi se si supera l’esame».

«Secondo punto, i ragazzi - continua Murat - Evitando la separazione che può esasperare il senso di fastidio della maggioranza e quindi l’isolamento, bisognerebbe sostenerli in classe; negli Usa si dice “no child left behind”, le scuole vengono premiate o punite a seconda del numero di stranieri che superano gli esami. Terzo, gli insegnanti: devono avere un training specifico ed essere incentivati con corsi e premi. I costi non sarebbero in fondo così elevati, e poi c’è anche un costo del non fare: se questi ragazzi vengono bocciati, se sono costretti a fare i lavori più umili, se non hanno amici italiani, quanto risentimento possono accumulare?».