«Noi e la vita in una stanza»
i ragazzi, la scuola a distanza
di Walter Veltroni
Tommaso chiede la parola con il simboletto della mano alzata. Non ha acceso la telecamera del computer e quindi arriva solo la sua voce.
U NA voce provata, malinconica: «Io sto in Dad da febbraio dell’anno scorso. Sarò andato a scuola due settimane in tutto. In questo periodo ho chiuso la gran parte delle mie amicizie. Non basta la dimensione virtuale, nei rapporti con le persone. Ci vuole la fisicità di uno sguardo, di un abbraccio, di una semplice stretta di mano. Così tutto è difficile, si perde la voglia di vedere qualcuno, di organizzare qualcosa, di intrattenere relazioni. Tutto è complicato, faticoso. Sto sempre qui, in casa. Ho cercato su Google, in un giorno di noia totale: “Cosa fare quando non hai voglia di fare niente”. La risposta del motore di ricerca è stata che ero apatico. Ho indagato ancora e ho visto che spesso, specie in questi tempi, apatia e depressione sono confinanti. Io non sono depresso. Almeno credo, almeno spero. Ma passo molto tempo in camera mia, davanti a un computer. Sono come confinato in casa. Un mese fa ho visto una persona, ma il mio mondo si sta riducendo a questa stanza. Mi si chiude addosso. Questa storia mi ha colpito molto. Temo che quando tornerò a uscire sarò talmente spaesato che mi verrà da dire agli altri: “Io Tommaso, tu come ti chiamare?”».
Gli altri ragazzi dell’istituto Primo Levi, uno scientifico del quartiere Ardeatino a Roma, che si sono riuniti in assemblea e hanno voluto e accettato che dialogassi con loro, ora sorridono. Ma quando Tommaso ha descritto il suo stato d’animo, gli occhi dei suoi compagni sono rimasti bassi, si capisce che sono colpiti. Come il preside, che interviene per rassicurare il ragazzo e garantirgli vicinanza.
Vedo questi adolescenti nelle loro stanze, con qualche poster, qualche libro, qualche foto. Hanno bei sorrisi, nonostante tutto, e una gran voglia di parlare. Sembrano persino avere nostalgia del primo lockdown, quando ci si ritrovava sui balconi per cantare l’inno d’Italia o si diceva a se stessi, ignari di ciò che ci attendeva, «Andrà tutto bene».
Quello, ai ragazzi che ho di fronte, finisce addirittura col sembrare un tempo da rimpiangere. Lo dice bene Saverio: «La prima fase l’ho vissuta meglio. Ero come catapultato in un’altra dimensione, in un mondo parallelo. Il mondo di prima, veloce e rumoroso, era lontano. Stavo scoprendo la lentezza e la profondità, la casa e la famiglia. Ho un balcone, allora sembrava oro. E pensavamo sarebbe stata una parentesi, sarebbe finito presto. Ora è tutto più duro. Io passo le giornate nella mia camera, esco solo quando mangio. La vivo male. Perché prima sembrava un altro mondo, ora invece sembra il mondo normale, l’unico possibile. Siamo come incatenati, ci vengono limitate tutte le cose che ci piace fare. E quando proviamo a sopravvivere c’è sempre qualche adulto che si scaglia contro di noi. Veniamo trattati male, come un capro espiatorio, qualcuno che è causa e non vittima di questa situazione orrenda. C’è il dito puntato contro di noi, che avremmo solo bisogno di una carezza e che ci fosse consentito di vivere la nostra età».
Ludovica, la ragazza che ha organizzato con gli altri rappresentanti l’incontro, aggiunge: «Quando a ottobre tutto è ricominciato, ho sentito che non c’era una via d’uscita. Quanto dobbiamo andare avanti? Stiamo male. Alcuni ragazzi che conosco hanno avuto bisogno non solo di uno psicanalista, ma di uno psichiatra. Io non faccio più sport, non ho relazioni, non posso neanche andare a scuola. Vivo con le mie ansie, le mie paure. Ho anche avuto un periodo conflittuale con i miei, ma penso sia inevitabile. Molti non riescono a parlarne e così ti resta tutto dentro. Durante il primo lockdown ho letto Sostiene Pereira di Tabucchi. Le pagine finali le ho divorate con concitazione...».
Mi tornano alla memoria, mentre Ludovica parla, proprio le ultime parole di quel libro fantastico: «Non c’era tempo da perdere, sostiene Pereira».
«...In questi mesi è cresciuta esponenzialmente la mia fragilità. Tutto mi sembra grande, difficile. Anche le piccole cose. Si è prodotta una rottura e io faccio fatica a leccarmi le ferite».
Giulia, una compagna di classe di Ludovica conferma: «Con il mio fidanzato ormai ogni cavolata diventa un casus belli, una tragedia. Lui fino a tre mesi fa mi sembrava fatto d’amianto. Non l’avevo mai visto piangere, e stiamo insieme ormai da un anno e mezzo. Ora gli capita per un nonnulla. Anche per un film. Ne vediamo tanti, specie quelli che hanno come tema la scuola. Così, per non dimenticare. A proposito: non so perché, ma da quando è iniziata questa situazione, io ho solo voglia di leggere libri o vedere serie televisive che già conosco...». La interrompo per dirle che forse questo è spiegabile con il desiderio di ritrovare quello che si è perduto ma si conosce, piuttosto che avventurarsi per sentieri inesplorati. Prevale, in momenti così, il desiderio di rassicurazione sulla voglia di scoperta, di nuovo, che è tipica delle fasi positive individuali e collettive.
«...Io non vedo i miei nonni da settembre, per proteggerli. E ormai ho zero contatti con il mondo esterno. Non posso abbracciare nessuno, se usciamo, prima del coprifuoco dobbiamo stare attenti a tutto. Un selfie si può fare con la mascherina, non con i nostri volti di ragazzi contenti di avere diciotto anni. Mi manca la voglia di uscire, di vedere cosa c’è fuori. Ci si è fatto il vuoto, intorno alle nostre stanze chiuse. Sembra un incubo: se non prendi il Covid il rischio è che diventi pazzo».
Edoardo aggiunge: «Della scuola, che è tanta parte della nostra esperienza di vita sociale, ci resta solo la parte più brutta. Solo i voti, non la comunità. A marzo scorso sembrava una dimensione nuova, faceva paura, ma era affascinante. Mio padre non l’ho visto per un mese, lui lavora fuori e torna solo per il weekend. Il venerdì sera portava il pesce ed era un rito la cena tutti insieme. Poi andavamo a correre insieme, e io cercavo di tenere il suo passo. Mamma fa lo smart working, ma questo significa che non abbiamo più orari, lei può essere chiamata in ogni momento. Nei primi giorni ci divertiva cucinare insieme, io sono bravo. Ma da quando c’è il lavoro da casa è difficile che riusciamo a combinare gli orari. Insomma ora la vita è più difficile, più cupa. Ci sono rimasti solo i doveri e la noia. Temo che pagheremo il prezzo di tutto questo, nel futuro. Ci stanno rubando gli ultimi anni del liceo, anni importanti. In questi mesi ci siamo trovati spezzati».
Interviene con discrezione una professoressa: «Noi abbiamo molti ragazzi che stanno male. Anche nei pochi momenti in cui sono in classe sembrano preferire l’uso del cellulare ai rapporti diretti con i compagni, ai quali sembrano ormai disabituati. È diminuita la partecipazione a qualsivoglia discussione, sono come in una bolla». Poi, con la voce rotta, una ragazza, Sara: «Durante il primo lockdown io ho perso 12 chili di peso. Non avevo più voglia di mangiare ma non mi accorgevo di quello che stava accadendo. Stare chiusa in casa mi ha messo sottosopra. Invece di alimentarmi cercavo cose da fare per riempire il tempo. Quando al ritorno dall’estate mi hanno visto i miei amici, ho capito. Io facevo nuoto, mi allenavo tre volte alla settimana. Tutto finito. Insegnavo in piscina anche ai bambini ma ora non li vedo più, forse nemmeno mi riconosceranno. Mi mancano molto. Ho letto tanto, questo sì. I classici, come Orgoglio e pregiudizio ».
Francesco parla per ultimo: «Durante il primo lockdown sono arrivato anche a dieci ore al giorno sul computer. Computer, dormire, mangiare. La vita è tutta qui, ora. Un libro mi ha aiutato. È Il metodo Sticazzi , mi ha fatto dare meno peso alle nuvole che mi oscurano le giornate». Poco dopo la conclusione del nostro incontro ricevo nella posta una mail di Ludovica: «Grazie mille! È stata un’assemblea veramente interessante... Tutti i nostri ragazzi si sono sentiti ascoltati, dopo tanto tempo».
Come diceva Pereira?
«Non c’è tempo da perdere».