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Nuove polemiche sui test Invalsi rilanciano il vero tema: quale finalità per la valutazione e per quale scuola?

L’articolo di Francesco Sinopoli, Segretario generale della FLC CGIL, pubblicato sull’Huffington Post.

15/05/2018
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L'Huffington Post

Il rito della somministrazione delle prove INVALSI va concludendosi anche quest’anno e non mancano code e strascichi polemici sul loro contenuto, sulle modalità e sulla loro funzione. Torna alla ribalta il problema della valutazione del sistema scolastico, sempre più costruita attorno a un’idea di scuola come azienda. È tempo di riaprire una discussione seria, vera, senza pregiudizi che coinvolga anche la valutazione in una cornice più ampia che deve riguardare un aspetto più generale (quale idea di scuola portare avanti), uno prettamente didattico (la trasmissione delle conoscenze e la transizione da un ciclo a un altro) e un altro più specificatamente professionale (chi è l’insegnante). Da tempo continuiamo a lanciare questa sfida culturale. Per questo, non rinunciamo a insistere nella discussione, nel tentativo di tenere insieme in un dialogo a più voci tutti gli attori della comunità educante.

Un anno fa abbiamo sentito la necessità di aprire una discussione pubblica sulle finalità e sulle modalità del processo di valutazione perché riteniamo indispensabili tante informazioni e dati per verificare l’andamento dell’intero sistema nazionale d’istruzione, per fornire una mappatura geografica e sociale dei bisogni educativi, per fornire indicazioni e dati al decisore politico, in modo trasparente e completo, perché possano essere intraprese reali azioni di miglioramento e di potenziamento. Necessità ancora ribadita e rilanciata, sempre su Huffington Post poco meno di un anno dopo.

Osserviamo intanto una tendenza di fondo: quella di implementare progressivamente l’utilizzo di queste informazioni nell’ottica di un sistema competitivo in cui si favorisce la comparazione tra le scuole nell’idea errata che ciò possa portare a una libera scelta informata e quindi di per sé utile alla cosiddetta school choice, alla scelta della scuola “migliore”.

In questo contesto di estremo aumento delle disuguaglianze, anche la valutazione competitiva fornita dall’uso dei dati INVALSI concorre a inasprire le differenze. Non concepiamo perciò una restituzione di dati alle scuole per costruire classifiche tra le scuole stesse. Non solo non deve farlo il Miur, ma nessun soggetto pubblico o privato. Siamo contrari a questo tipo di valutazione, che spinge alla competizione e addirittura all’aperta ostilità tra istituti, come se le scuole dovessero produrre merci, piuttosto che formare studenti, e l’INVALSI non svolge invece il compito di indicatore politico per investire là dove è necessario. Questo è il nodo principale da affrontare.

Naturale allora da parte di molti (anche da parte nostra) l’avversione per quei quesiti di corredo alle prove INVALSI, finalizzati alle informazioni private (Questionario studente), in grado di far interpretare l’esito dei risultati raggiunti dagli studenti nelle prove, inserendoli in un contesto sociale concreto.

Gli aspetti rilevati sono relativi all’ambiente familiare, alle attività svolte a scuola, alla soddisfazione per le strutture e agli elementi psicologici più legati alla percezione di sé dei bambini e delle bambine nonché delle ragazze e dei ragazzi del nostro paese.

La ricerca pedagogica e psicologica ha messo in luce come questi aspetti molto contino per l’apprendimento e soprattutto per la motivazione di chi vuole apprendere, e sono efficaci nell’influenzare le scelte che lo studente compie in relazione al proprio futuro, o al grado delle aspettative. Molti studi mostrano come la motivazione nell’apprendimento sia centrale nell’età dello sviluppo come nella formazione degli adulti.

Sappiamo che queste domande non incidono sulle prove di apprendimento che gli studenti sono chiamati a svolgere e che non esistono risposte giuste o sbagliate, ma che sono volte solo a indagare opinioni e atteggiamenti dei bambini e delle bambine. Ma è anche vero che non basta dire che In tutto il mondo si fa così” o che Queste sono domande standardizzate che si fanno in tutti i paesi.” Proprio perché il livello di sviluppo è diverso tra studenti delle diverse classi delle prove è necessario che le domande di “contesto” siano realmente significative e che davvero possano rappresentare la qualità della evoluzione cognitiva, relazionale, emotiva.

Una domanda come la seguente: “Pensando al tuo futuro, quanto pensi siano vere queste frasi? a. Raggiungerò il titolo di studio che voglio; b. avrò sempre abbastanza soldi per vivere; c. nella vita riuscirò a fare ciò che desidero; d. riuscirò a comprare le cose che voglio; e. troverò un buon lavoro” può avere una logica forse nella scuola secondaria ma nessuna in quella primaria (come ampiamente denuncia anche il maestro Giuseppe Caliceti, sul quotidiano Il Manifesto).

Esistono – a livello nazionale ed internazionale – altri strumenti in grado di indagare il reale contesto sociale nel quale bambini e adolescenti vivono e si evolvono. Indagare in modo così diretto e inatteso gli aspetti materiali della vita degli studenti, attraverso quesiti sul desiderio di una posizione lavorativa futura o sulla possibilità di avere più soldi da spendere non solo è un errore educativo notevole, ma rischia di produrre in alunne e alunni di undici anni fortissimi traumi.

In Gran Bretagna, questo tipo di quesiti è stato più volte, e giustamente, sottoposto a critiche spietate, da stuoli di pedagogisti, psicologi, educatori, insegnanti, genitori. Fin dal 2014, ormai, il movimento di massa che si è sviluppato contro questo genere di test ha sollevato numerose obiezioni, e ha vinto la sua battaglia, mentre, sempre più, proprio nei paesi anglosassoni, va spegnendosi l’ideologia della school choice, per effetto della critica alle forme di discriminazione sociale, culturale, razziale che essa ha prodotto negli anni. E mentre ciò accade nella patria che più di ogni altra ha sperimentato la fallacia dei test, in Italia si prosegue ostinatamente a inseguire esattamente quel modello.

Ecco perché l’INVALSI, come importante struttura di ricerca metodologica e scientifica, dovrebbe essere maggiormente consapevole del fatto che ogni suo strumento, ciascuna domanda può rappresentare un’indicazione per le scuole e per chi le legge. Chiediamo che l’INVALSI assuma una maggiore responsabilità nei confronti di ciò che vuole trasmettere, chiarendo attraverso comunicazioni sempre più trasparenti le scelte che compie e valutando con maggiore attenzione l’impatto che esse hanno in primis per gli operatori della scuola e per quelli che la scuola la vivono, ma soprattutto per i nostri bambini e bambine che forse a undici anni non si sono mai chiesti – ci auguriamo – se “avranno abbastanza soldi per vivere.”

Il fatto che le prove siano poi diventate così significative, diventando la parte più corposa della certificazione delle competenze al termine del primo ciclo di istruzione, è una scelta che consideriamo totalmente sbagliata, perché tende a svuotare la scuola di una delle sue funzioni principali in una stagione in cui il ruolo e la dignità sociale degli insegnanti andrebbero rafforzati, come i fatti di cronaca dimostrano.

La discussione sulla valutazione del sistema scolastico si interseca con la politica scolastica e quindi con l’idea di scuola che vogliamo: bisogna costruire una scuola che argini le disuguaglianze sociali suggerendo al decisore politico dove intervenire. Siamo pronti a confrontarci su questo punto, a partire proprio dai dati che l’INVALSI saprà restituirci.

Se le informazioni sui tassi di abbandono e dispersione servissero per promuovere un grande investimento sul tempo scuola a partire dalle regioni del Mezzogiorno tutti saremmo lieti di un sistema scientifico e non strumentale di valutazione e monitoraggio. Solo in questo caso, dunque, la dinamica dei test Invalsi raggiungerebbe quella legittimazione costituzionale che all’articolo 3 impone di eliminare ogni barriera alla crescita personale. Per questo esiste la scuola, e per questo si fa valutazione.

Lo abbiamo detto e vogliamo ribadirlo. Di fronte a una regressione alfabetica di ampie fasce della popolazione, al persistere di elevatissimi tassi di dispersione e abbandono, alla difficoltà non risolta di tutte le transizioni che colpiscono i più deboli, alla priorità assoluta di costruire inclusione, integrazione e nuova cittadinanza dobbiamo tornare a porci una domanda di fondo, la stessa che si poneva ormai cinquanta anni fa la pedagogia democratica, sulla spinta delle straordinarie e profetiche provocazioni di Don Milani: se il sapere è solo quello dei libri, “Chi ha tanti libri a casa sarà sempre più avanti di chi i libri non li ha mai visti”.

Anche oggi chi ha tanti libri in casa è quello che potrà sempre scegliere la scuola migliore sulla base delle informazioni che riceve dalla rendicontazione” dei risultati dei test e delle diverse forme di valutazione. Non è questa la ricetta per la scuola italiana, non è questa la scuola che vogliamo.