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Parlarne a scuola? Si, ma sapendo quello che si dice e come

di Diana Cesarin

16/01/2015
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ScuolaOggi

Gli eventi che stiamo vivendo hanno il carattere dell’enormità.  Vita o  morte. Esistenza o venir meno  del nostro sistema di vita e di valori.   La risposta popolare, a Parigi e in tutta la Francia, una risposta enorme,   rincuora. Dimostra che, insieme, ci si può provare. Che, insieme, si può vincere la paura e andare avanti.

Ma l’enormità, profondissima, resta.  E  toglie il carattere dell’ovvietà alla nostra vita nel suo svolgersi quotidiano, nelle routine, nei gesti minuti di cui si compone l’esistenza di ciascuno di noi. Fare la spesa, andare  a lavorare, fare jogging, leggere un giornale o fare un giornale, anche satirico, anche blasfemo.  Questo è il discrimine: ciò che fino a prima era vissuto come ovvio oggi, dopo quegli attentati, assume il carattere di una scelta. Di un comportamento che al tempo stesso contiene e conferma un valore. Una scelta individuale  che però  può farsi  concreta, istituente e vigente solo se condivisa, solo se collettiva. Partecipata collettivamente.

Ce la faremo?

Le politiche e gli interventi sulla sicurezza non bastano, e anzi, se non trovano la misura giusta, rischiano di minare le garanzie democratiche che fanno la qualità della nostra vita, realizzando così il paradosso di raggiungere per altra via l’obiettivo dei terroristi.

E’ chiaro che occorre agire con altrettanta e maggiore efficacia sul terreno della mentalità, della cultura. Ovvero sul terreno della formazione e dell’educazione. Laddove i principi, i valori, le scelte di fondo  su cui si basa la democrazia diventano, per le singole persone, modelli culturali di riferimento, comportamenti, modi di conoscere, analizzare, valutare la realtà. 

Il compito grande che la scuola cerca ogni giorno di svolgere, tra mille difficoltà, si fa ancora più grande di fronte alla minaccia e alla realtà dell’attacco. Occorre  far sì che il valore della democrazia sia sempre esplicitamente presente alla coscienza individuale,  che esca dall’opacità dell’ovvio. Che consapevolmente e reiteratamente  essa, la democrazia,  venga scelta e confermata anche nel connotarsi dei comportamenti minuti. In questo oggi si identifica la formazione democratica delle giovani generazioni. Un processo lungo delicato complesso,  che  è principalmente un compito  della scuola. Compito arduo  che va riconosciuto e sostenuto. Con politiche che realizzino il diritto all’istruzione.  Con risorse e politiche di reclutamento e di formazione continua per chi a scuola lavora. Con quello che serve insomma per fare una scuola buona davvero, per tutti davvero, cioè per ciascuno.

Su questo occorre la consapevolezza generale: dei singoli cittadini, dei docenti e di tutti i lavoratori della scuola, delle istituzioni.

Per contrasto, colpisce il contenuto della lettera ai dirigenti scolastici  inviata da un assessore veneto. Lettera di cui considererei  di gran lunga preferibile non occuparsi se non si trattasse di un gesto istituzionale che rischia di far danno e che quindi richiede risposta.

Nel  testo l’Islam è considerato come una cultura che predica l’odio verso la nostra cultura, mentalità, stile di vita “fino ad arrivare all’estremo gesto terroristico”.  I  genitori degli alunni “stranieri” sono destinatari di  un “messaggio di richiesta di una condanna di questi atti”.  “Tutti i terroristi sono islamici”. E così via in  una  sequela   di  luoghi comuni facili, rozzi, disinformati (o volutamente distorsivi della realtà) e comunque  pericolosi.

L’Islam non è questo. Gli autori degli efferati  fatti di Francia erano francesi.  Molte delle loro vittime erano di religione islamica. I  figli degli immigrati non possono essere considerati tout court come “stranieri”. Una richiesta di condanna riservata ai genitori degli alunni “stranieri”,  fa di loro  una categoria a priori sospetta di terrorismo o di collusione con esso. Invece la formazione democratica si regge sulla capacità di distinguere;  di non fare di ogni erba un fascio. Si regge  sulla libertà e la capacità  di individuare, conoscere, connettere e criticare fonti diverse per costruire le proprie libere opinioni.

La scuola non vive sulla paura, ma sulla  capacità di costruire  appartenenza   giorno dopo giorno, offrendo le condizioni  per  sperimentare l’ascolto, l’accoglienza, il rispetto reciproco, la conoscenza  critica e gli strumenti per continuare ad imparare e ad analizzare la realtà e  parteciparvi attivamente, consapevolmente e costruttivamente.  E solo una scuola che ordinariamente lavori per  questo può affrontare con rigore, delicatezza ed efficacia questioni come i fatti di Francia, o di Nigeria o altri che questa travagliata epoca ci pone innanzi. Altrimenti saranno solo predicozzi che lasciano il tempo che trovano. O, peggio, se malauguratamente qualcuno seguisse le indicazioni dell’assessore veneto, sarà  spargimento  di messaggi xenofobi, manichei, superficiali.  Il contrario di quello di cui abbiamo enorme bisogno, per difendere, far vivere e crescere davvero  la democrazia.

Tanto più in periodi come questi,  a scuola si deve potere (e sapere) parlare delle efferatezze che accadono. Per condannarle, certo, ma non in modo sbrigativo,  retorico o stereotipato.  C’è bisogno di far  emergere i luoghi comuni e di decostruirli; di  accogliere l’emozione e trasformarla in consapevolezza, in ricerca, in analisi fondate e plausibili;  di  coltivare il desiderio  di  un mondo che sia migliore e la motivazione ad impegnarsi per realizzarlo confermando e attualizzando i valori e i principi della nostra Costituzione. E  questo mentre a quel mondo migliore si  comincia a dar corpo,   attraverso il confronto, la discussione, la formazione.