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Pensieri sulla scuola: quali azioni?

di Mila Spicola

01/08/2019
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da MICROMEGA

Abbiamo concluso il precedente intervento con due mali del sistema scolastico italiano, che diventano fonte di altri mali e di inefficacia educativa, e cioè: “a. che la scuola non è inclusiva, b. che la scuola gerarchizza e separa tra saperi e tra professioni, o discrimina per contesto, che poi in fondo sono difetti che hanno binari paralleli (ai saperi gerarchizzati corrispondono contesti e divari per cui va a finire che i poveri sono coloro che rimangono indietro e destinati ai “piani bassi del sapere pratico” e chi sta bene ha migliore accesso all’istruzione e fondamentalmente alle vette del “sapere teorico”), esattamente come denunciato al tempo di Don Milani nel 1967, o di Aldo Visalberghi, nel 1964 e, andando più indietro come promosso dalla visione gentiliana fascista. Che fare dunque? Da dove partire? Sono tante le azioni possibili, molte delle quali indicate nella letteratura scientifica di riferimento o nei rapporti relativi a rilevazioni internazionali o a indagini. 

Questo intervento vuole illustrarne qualcuna tra quelle su cui mi sembra utile riaprire un confronto.

Primo. Per qualunque ragionamento pedagogico, e parlare di Education è fare un ragionamento pedagogico, mi sembra utile iniziare dalla funzione del docente, perno reale della Scuola Democratica, e dal suo lavoro in coordinamento con i dirigenti scolastici e il personale Ata delle istituzioni scolastiche. Significa dare dignità al ruolo attraverso il riconoscimento di necessarie conoscenze e competenze professionali. Sembrerebbe banale ribadirlo e non lo è, perché oggi nel nostro Paese non è così. La formazione iniziale di tutti i docenti dovrebbe avere una specializzazione di livello post lauream, teorico-pratica (oggi avviene solo per i docenti della scuola, il corso quinquennale di laurea in scienza della formazione assolve a questo compito) pagata in maniera adeguata, non dico come le specializzazioni mediche, ma quanto meno che ci si campi: noi, sinistra, ci abbiamo provato a farlo, il governo sovranista l’ha smontata. Chiedetevi: perché? Perché è semplice mantenere separate la formazione disciplinare e quella professionale. Ma nel nostro modello l’errore blu è stato il non riconoscere un compenso adeguato a quei tre anni per il docente che si professionalizza. E’ un modello che va ripreso, è necessario. Affermare che i docenti vanno formati bene, selezionati meglio, valutati adeguatamente e pagati di più non significa esprimere un giudizio su ciascuno di loro, ma ammettere una macroscopica mancanza di sistema e auspicarsene un miglioramento. La professionalizzazione della categoria non passa dalle accuse alla categoria e dalle difese di categoria (quella è una fallacia argomentativa) ma, a monte, passa dalla necessità di una formazione specifica, che oggi non c’è più: sebbene da più parti evocata, poche le voci che si sono levate quando l'attuale governo ha cancellato tutti i contenuti formativi del decreto legislativo n. 59 del 2017 sulla formazione iniziale dei docenti e loro progressivo inserimento nella professione. Un fatto sorprendente vista la folla di esternazioni a cui assistiamo su tanti temi educativi da parte sia dell’opinione pubblica che di autorevoli commentatori. Segno di scarsa attenzione? Può darsi, fondamentalmente di insufficiente governo delle questioni. 

Ai docenti chiediamo motivazione, passione, alta professionalità, padronanza disciplinare, pedagogica, didattica, psicologica, gestionale, capacità di innovare e aggiornare: giusto e doveroso pretenderlo; ma cosa diamo? Il riconoscimento sociale del ruolo dei docenti passa dalla loro professionalizzazione unita a una riflessione comune su un contratto migliore e un salario adeguato. Questo non significa, come spesso sento, “interessarsi più dei docenti che degli studenti”: il gioco delle eterogenesi dei fini e delle confusioni dei piani è antico e non giova a nessuna tesi progressista. Chi ritiene accettabile formare poco, chiedere poco e pagare poco i docenti non è la parte progressista, e nemmeno è la parte sindacale, ma sono coloro che, in ogni segmento del ragionamento, quelli che vogliono formarsi poco, quelli che vogliono chiedere o dare poco, quelli che vogliono pagare poco. In realtà, nessuna di questa parte vince, perché il sistema è esploso, così com’è non funziona; non va a vantaggio della classe docente e sicuramente non va a vantaggio del bene dei studenti di cui tutti si riempiono la bocca.
Si propone dunque una formazione efficace e specifica a cui consegua direttamente un miglioramento della condizione di lavoro e di salario dei docenti, dentro un sistema meglio organizzato. Miglioramento di sistema, valorizzazione e motivazione dei docenti passano da questo. La professionalità e la funzione docente (tempo di lavoro, orario, stipendio, carriera, formazione, selezione, valutazione) vanno affrontate insieme alla riflessione sull’organizzazione dentro la scuola e insieme al contratto, puntando su modelli plurali e flessibili di diversa organizzazione delle istituzioni scolastiche oggi fintamente autonome. E’ difficile parlare di contratti diversi, di innovazioni didattiche, di riflessione sui cicli, sui nuovi contenuti e sulle nuove competenze, senza affrontare in modo simultaneo e organico quei punti e senza attivare una riflessione comune con la scuola e dentro la scuola.

Occorre, lo ripeto, una ridefinizione delle funzioni e del lavoro del docente non solo in merito alle competenze professionali indispensabili ma anche riguardo il modello organizzativo didattico e gestionale di istituzione scolastica. 

Andiamo all’organizzazione scolastica. Le scuole oggi sono comunità di non meno di mille individui e sono organizzate con sole tre figure di sistema: docenti, dirigenti e personale ATA a fronte di una pletora di funzioni e incarichi oltre la docenza. Siamo l’unico paese al mondo a prevedere una simile situazione. Nelle scuole si sopravvive di malessere organizzativo, di burocrazia mal gestita a livello centrale e periferico e di “corsa alle risorse” europee aggiuntive a cui accedere attraverso i progetti, che si predispongono con processi burocratici macchinosi, che non arrivano a tutta la platea degli studenti, che sono frammentati e discontinui e di cui non credo si sia misurato l’impatto e l’efficacia. Si aggiungono al lavoro curriculare nelle classi, sono portati avanti senza strategie di sistema e, a livello di divari nei rendimenti, non giovano a molto. Però si fanno, nel tempo che rimane se ne occupano i docenti, e diventa un altro carico per quanti, tanti, che nelle scuole si spendono più del dovuto per ottenere meno del dovuto. Ciascuna di queste funzioni è assunta in modo non stabile, discrezionalmente. Da qui disagi su disagi. 
Triste è quel sistema scolastico che ammette la presenza di docenti che si ammazzano di fatica, per dargli poi un “premio”, a fronte di docenti che non lo fanno e sono da additare semplicemente col “non avere un premio”. Entrambi hanno degli studenti. E non è detto che i docenti che si assumono la responsabilità di altri incarichi siano i docenti migliori dentro le classi. Inoltre è quanto meno discutibile un sistema che accetti che alcuni studenti abbiano di più e altri di meno a livello di qualità della docenza. E allora, cerchiamo di predisporre un sistema in cui vi sia una buona qualità media dei docenti, pagati il giusto, impegnati al massimo nella docenza, come è giusto che sia, e immaginiamo per una parte di coloro che scelgono di voler dedicare più tempo, venga corrisposto uno straordinario, e, per una parte ancora di loro che decida di impegnarsi in altre funzioni, una progressione di carriera? Ne più e ne meno che in tutte le organizzazioni complesse? Badiamo bene che la narrazione del “docente missionario”, del “docente eroe”, è sintomo di un sistema inefficace, non di un sistema sano. I docenti lo sanno, vorrebbero mutare la loro condizione, ma sono combattuti tra la necessità di migliorare e la paura di andare incontro a maggiore caos ad ogni riforma. E il cittadino comune, quando applaude alla premialità al docente migliore, non sa che non sta premiando il docente migliore, ma magari anche il peggiore, quello che si impegna però in mille attività extracurriculari o gestionali dentro l’istituzione scolastica. 

Le famose resistenze al cambiamento del mondo della scuola siamo sicuri che non siano resistenze al peggioramento di una condizione tutt’altro che rosea, per cui i docenti ormai sfiduciati preferiscono il male conosciuto che il bene a farsi? Eppure un metodo per il miglioramento va cercato e sperimentato: il 65/70 % dei docenti è affetto da burnout dopo 20 anni di lavoro, come pensiamo di poggiare un paese sulla scuola se la situazione è questa? Ci sono dei temi su cui va costruito insieme ai corpi intermedi e ai protagonisti della scuola un assetto diverso che abbia come obiettivo la qualità del sistema attraverso il benessere. La Scuola non può esistere per le necessità burocratiche del sistema centrale, come purtroppo ahimè accade oggi su troppe cose, ma viceversa. Io auspicherei, una maggiore funzionalità di sistema, in modo da permettere lo svolgimento della didattica in una cornice differente, con un buon bilanciamento azioni strutturali qualificanti e necessarie e autorganizzazione reale, flessibile rispetto all’oggi, in cui spesso alle azioni strutturali si pensa di compensare con progetti frammentati e discontinui, che per loro natura non possono essere sostitutivi di provvedimenti ordinamentali generali. Faccio degli esempi semplici: il tempo pieno, l’estensione del sistema integrato dei nidi, le compresenze, i moduli, la formazione iniziale e la selezione dei docenti, e ogni proposta che organizzi e faccia sistema e reca dei miglioramenti.

Secondo. Tutti i bambini e tutte le bambine hanno diritto all’asilo nido, soprattutto nelle aree marginali. È ormai accertato dalle evidenze empiriche, dalle indagini, a breve e a lungo periodo, dagli studi su come funzione e si forma il cervello, come gli investimenti precoci nella prima infanzia siano quelli a maggiore ritorno tra gli investimenti nello sviluppo umano. Il nido non è solo un aiuto alle famiglie o al lavoro femminile, ma un diritto di cittadinanza della persona, del bambino. Nei luoghi del disagio, il nido di qualità è il mezzo più efficace per combattere le fragilità all’ingresso e per favorire il percorso scolastico successivo. La dispersione scolastica si combatte coi nidi, non con i campetti di calcio per i sedicenni. Nulla togliendo al valore dello sport. La retorica sulle Invalsi e sul “35% di studenti che non sa leggere” potremmo anche risparmiarcela se non andiamo a verificare e a sanare il vulnus: la maggior parte di quel 35% è fatto di studenti di ceto sociale povero, del Sud a cui l’educazione prescolare, decisiva per il successo scolastico nelle aree marginali, non viene corrisposta. Non da stamattina, da mai. E allora, per tornare a quanto dicevamo prima, se dobbiamo definire dei livelli essenziali di prestazione per l’educazione della prima infanzia validi su tutto il territorio nazionale calcolati sui fabbisogni (cioè dal numero dei bambini), dobbiamo prevedere risorse adeguate finanziando, accompagnando e monitorando l’applicazione del decreto legislativo sull’educazione prescolare, cosiddetto “0-6” e di cui passa sotto silenzio la notizia che il governo ne ha bloccato l’attuazione. Eppure l’uniformità dei servizi educativi legati all’infanzia è un diritto costituzionale. Ogni riferimento alla possibilità di aggravamento della già squilibrata situazione attuale è puramente intenzionale. 

Terzo. Estensione del tempo pieno nella scuola dell’obbligo in tutto il territorio nazionale o reintroduzione delle compresenze. Il tempo pieno è una proposta antica e lo promettono in tanti, salvo poi fermarsi di fronte alla realizzazione, perché costa e perché i portatori d’interesse, i bambini e le bambine poveri del Sud (perché di quelli parliamo quando ci riferiamo ad aree senza classi a tempo pieno) non sono in cima alle priorità della politica. D’altro canto ci riferiamo, e lo sappiamo, a contesti sociali e familiari che tradizionalmente non hanno esercitato quella pressione sociale esistita altrove sulla richiesta di un maggiore tempo scuola, per cui non è una leva di consenso come altrove. Classi dirigenti e decisori politici poco attenti hanno ignorato il tema dell’aumento dell’offerta del tempo scuola curriculare. Lo hanno affrontato spesso come se fosse un servizio alla famiglia e non un diritto del bambino e della bambina. Magari facendo affidamento sulle altre modalità di aumento dell’offerta, come abbiamo detto, quella finanziata con fondi europei e che si struttura intorno a progetti. Il problema è che quei progetti, per quanto belli, sono discontinui, frammentati e non coprono l’intera platea degli alunni e delle alunne. Il tempo pieno è un’altra cosa: è un’azione sistemica, ordinamentale e necessaria che agisce strutturalmente. Vogliamo finalmente attuarla? Discutiamo però anche del modello. Un tempo pieno flessibile, di qualità, affidato all’autonomia della scuola e a modelli di autorganizzazione decisi dai docenti di ogni istituzione scolastica, che abbiano come strumento il benessere organizzativo della comunità educante e che mirino al potenziamento di chi è bravo e al recupero delle fragilità dentro la Scuola. Da qualche parte dovremmo anche riprendere una riflessione sul modello delle compresenze coi moduli eliminato sotto i governi Lega-Berlusconi: un approfondimento su quel che s’è perso e quel che non s’è guadagnato accantonando quel metodo ancora oggi non s’è fatto. Ogni riferimento ai rendimenti della parte più fragile del Paese è puramente intenzionale. 

Quarto. Basta lezioni private e basta “classi pollaio”. Ad ogni ordine e grado del sistema d’istruzione chi rimane indietro deve essere recuperato a scuola come azione sistemica e come parte integrante dell’offerta formativa e dell’organizzazione scolastica: o dentro la classe o fuori dalla classe. Ma sicuramente dentro la scuola. E’ uno degli indicatori dei sistemi d’istruzione sani. Ed è anche un indicatore di equità. Avere delle insufficienze non può più pesare sulle famiglie, sia che se lo possano permettere sia che non possano permetterselo: non ce lo possiamo permettere noi, come corpo collettivo. È un dei fattori più subdoli di diseguaglianza scolastica. Ma è anche indicatore di una debolezza del sistema nazionale d’istruzione che deroga a una delle sue funzioni essenziali (anche qui ogni riferimento ai bassi rendimenti scolastici della parte più fragile del Paese è puramente intenzionale). Agire in tal senso rientra in quel disegno di scuola delle pari opportunità di cui sto scrivendo. Per far ciò servono risorse, puntare sui docenti e sull’autorganizzazione del lavoro dentro la singola scuola e flessibilità scolastica. I docenti devono poi poter contare su classi con un numero adeguato di alunni e su un tempo di insegnamento e di recupero flessibile, per recuperare e valorizzare tutti, specie nelle aree difficili. Non più di 24 alunni per classi, come da normativa, senza deroghe e non più di 15 alunni nelle scuole che ricadono in aree disagiate a priorità educativa. Il numero degli alunni per classe deve essere commisurato alle necessità educative e alla possibilità dei docenti e della scuola di lavorare sul recupero dentro la classe o fuori dalla classe. Questo deve avvenire dalla primaria alla secondaria di secondo grado, dove generalmente, tra il primo e il secondo anno, si compongono classi con numeri insostenibili di allievi, o si compattano classi via via proseguendo, specialmente nei percorsi tecnico professionali, dove erroneamente si viene indirizzati per rendimenti e non per scelta personale. Gli ultimi vengono “decimati” anno dopo anno, irrecuperabili, anche per gli alti numeri di composizione delle classi: non possiamo permetterlo.

Quinto. Alternanza Scuola-Lavoro. Sposiamo e condividiamo la proposta elaborata dagli studenti in questi anni, che poi è il punto di vista gramsciano, nulla di più e nulla di meno: potenziare l’alternanza scuola lavoro come metodologia didattica, cioè la pedagogia della prassi, cioè la scuola delle cose, come la chiamava Gramsci, cioè la scuola per maturare soft skills, che non sono le abilità professionali, che non è “il liberismo sfacciato che entra nella scuola”, ma è la necessità di dotare ciascun individuo di capacità della persona utili per la vita, necessarie a esercitare diritti e doveri della cittadinanza. Ricordo a tutti che il senso critico di cui tanti giustamente evocano la necessità è una soft skill. Per far questo è necessario formare adeguatamente i docenti alla progettazione di una didattica integrata e di una valutazione adeguata delle competenze trasversali e puntare a esperienze di alternanza guidate e qualificate didatticamente. In modo che tali siano effettivamente esperienze didattiche e non attività appaltate al fuori la scuola. Se così definita l’alternanza, come offerta formativa di competenze importanti per la persona come soggetto “politico” consapevole, va estesa allo stesso modo a tutti gli studenti e studentesse, a tutti i corsi di studio. Va distinta dall’apprendistato e dagli stage.

Sesto. Riqualificazione della filiera tecnico-professionale. Una sinistra veramente attenta non può accettare in nessuno modo che il percorso tecnico professionale sia il “ghetto di chi non vuol studiare”, bensì deve fare in modo che sia un percorso di studi parimenti considerato e qualificato da offrire a chi lo sceglie e necessario al Paese solo se qualificato. Va riqualificato prima nella considerazione comune e poi aggiornato ai temi delle innovazioni digitali, tecnologiche e del sistema economico 4.0, pari qualità, rigore didattico e contenuti. Per far ciò deve cambiare prima la mentalità collettiva, di famiglie e di docenti. Se è vero che molte imprese lamentano l’assenza di competenze formate in competenze tecniche e professionali rispondenti alle loro richieste io dico, quelle aziende si sveglino, vadano negli uffici scolastici provinciali, si siedano intorno a un tavolo con i consigli scolastici degli istituti e collaborino, non lo vieta nessuno. Dal mio punto di vista continuo a fare un discorso culturale e ideale di valorizzazione dei percorsi tecnico professionali, oltre che concreto e indispensabile oggi: per me il lavoro è mezzo di emancipazione della persona, non fine in cui la persona è mezzo, vale il viceversa, ma vorrei che ciascun lavoro fosse qualificato con una formazione aggiornata, come anche nella condizione e nel salario. Perché a una qualificazione della formazione debba corrispondere adeguamento di condizioni e salario fa parte della nostra cultura del lavoro e in questa ridefinizione dei contenuti, dei livelli di apprendimenti e competenze tecnico-professionali, le scuole possono collaborare con associazioni di categorie e di imprese.

Per la filiera tecnico professionale è possibile potenziare la cosiddetta “via italiana al sistema duale” per maturare competenze e abilità professionali, ma la si distingua dal sistema dell’alternanza scuola lavoro, perché nell’alternanza parliamo di competenze della persona; è importante rafforzare il legame tra sistema di istruzione, formazione professionale e mondo del lavoro, non è asservimento al modello liberista, no è ritorno all’ideale comunista, (si può usare questa parola?) ; sostenere il processo di diffusione dell’apprendistato formativo di qualità, monitorandone processi ed esiti, e rafforzare il sistema di Istruzione e formazione professionale (Iefp). L’obiettivo è puntare di più su didattica laboratoriale e applicativa, in linea con le esigenze di Impresa 4.0.

Settimo. Combattere la povertà educativa e la dispersione scolastica si può: definendo e agendo in aree di priorità educativa in modo strutturale e con provvedimenti quanto più precoci quanto più efficaci. La frequenza al nido, il tempo pieno, il recupero delle fragilità a scuola, il potenziamento della filiera tecnico-professionale, la riqualificazione professionale ed economica dei docenti sono tutte azioni necessarie, da inserire in un sistema meglio organizzato tale da offrire didattica individualizzata, progettualità nel tempo dell’azione delle comunità educanti, coinvolgimento di tutti gli attori. Sono tutti strumenti che vanno ad agire nelle aree marginali nel verso del contrasto alla povertà educativa e dell’abbattimento dei tassi di dispersione. Da dove iniziare: si possono istituire “aree di priorità educativa” nelle aree marginali con i più alti tassi di abbandono e di povertà e in quelle aree fare dei progetti di politiche integrate assicurando accesso ai nidi e al tempo pieno, insegnanti in numero maggiore nelle scuole, appositamente formati e valorizzati, sperimentazione di modelli auto organizzativi flessibili, per seguire gli studenti con piani educativi personalizzati da attuare con azioni improntate alla continuità e non alla frammentazione, prevedendo anche risorse per il sostegno economico individualizzato per coloro che sono più bisognosi, magari predisponendo modelli di coinvolgimento tra scuola e pubblico e privato sociale che possano contribuire all’offerta educativa e formativa.

Ottavo. Puntare sulla qualificazione della Formazione Professionale definendo dei LEP e degli standard di qualità e parlare di Diritto universale alla formazione continua e certificazione di qualità delle competenze, con particolare attenzione al sistema formativo nel Meridione. Aprire coi docenti, con ricercatori, con i formatori laboratori diffusi e in rete permanenti sulla definizione, didattica e valutazione e la certificazione delle competenze. Se sono competenze di base saranno docenti e ricercatori della conoscenza. Se sono competenze trasversali relative alle capacità della persona e implementabili attraverso l’alternanza scuola lavoro (dicevamo soft skills) saranno gruppi più aperti con docenti, dirigenti, enti interessati, formatori e imprese. Se sono hard skills, ovvero competenze professionali specialistiche, specialmente nei nuovi ambiti del cambiamento tecnologico e dell’industria 4.0, connesse ai percorsi professionali, agli apprendistati, alla formazione continua e permanente, alle lauree professionali, degli its, saranno laboratori composti dai docenti, dalle reti degli istituti tecnici e professionali, dai consorzi, dalle associazioni di categoria, dal mondo della ricerca, dell’innovazione, in modo da allineare sempre processo formativi e processi produttivi. In tutti e tre i casi si possono prevedere dei laboratori aperti a frequenza esterna e permanente, extrascolastici, destinati alla riqualificazione continua.

Nono. Rimettere sul tavolo le sfide aperte: il discorso sui cicli e sui nuovi contenuti. Appena si parla di cicli tutti pensano al famoso anello debole che sarebbe rappresentato dalle “scuole medie”. Non è quello l’anello debole, bensì è il percorso per intero che ha bisogno di una riflessione condivisa. E, insieme a quella, c’è anche una riflessione da fare sui nuovi contenuti e sulle nuove conoscenze. Io non sono la paladina del duello tra conoscenze e competenze che appassiona tanti e che da tempo è sfuggito di mano. Le competenze sono la capacità di utilizzare al meglio le conoscenze. Senza conoscenze non si danno competenze e viceversa, leggere e capire è una competenza, scrivere correttamente per esprimere pensieri complessi è una competenza, fare di conto è una competenza. Ma andiamo ai nuovi contenuti necessari per essere cittadini consapevoli. Faccio l’esempio della cosiddetta educazione civica, ma potrei farlo per l’educazione digitale, per quella al rispetto delle differenze. Oggi tutte le scuole prevedono attività trasversali atte a maturare competenze civiche e di cittadinanza, bene, ma bisognerebbe riflettere su quanto serva a tutti e tutte i cittadini un bagaglio comune di conoscenze, dunque un insegnamento specifico, che abbracci saperi giuridici, economici, finanziari, sulla sostenibilità e sul digitale, soprattutto per gli studenti e le studentesse che si avviano alla maturità e dunque alla vita adulta. I cataclismi economici, quelli climatici, le carenze su conoscenze giuridiche e finanziarie della popolazione adulta, la necessità di comprendere meglio il mondo e di agire comportamenti sani in rete che, anche se virtuali, hanno rischi e impatti reali, sono prioritariamente saperi da possedere prima che competenze da maturare. E’ la Scuola il luogo dove colmare le lacune enormi della popolazione italiana in tali ambiti, con tempi più strutturati dal punto di vista ordinamentale. Personalmente penso a un insegnamento specifico, definendo un bagaglio comune di conoscenze necessarie a tutti i cittadini e le cittadine, che sia previsto a prescindere delle possibili attività trasversali che già si fanno. Non bastano le tante attività discrezionali, belle, interessanti, ma diverse tra scuola e scuola, che non colmano quel vuoto di conoscenze necessarie oggi e non producono un effetto sistemico.

Decimo: il silenzio, lo studio, la riflessione, il confronto e l’invito all’approfondimento specifico di ciascuna delle proposte di sopra come anche delle ulteriori che vi vengono in mente.